A margine della pubblicazione del nuovo bellissimo album “Slow Phaser” (recensito su queste pagine il mese scorso), abbiamo incontrato Nicole Atkins – reduce dal successo del breve tour britannico – per un’intervista a tutto campo dove musica e mestiere di vivere si incrociano senza soluzione di continuità.
Ognuno dei tuoi album ha come caratteristica ricorrente un sound noir che affonda le radici in certo suono western americano di fine anni ’60 (Roy Orbison in primis) e, aggiungerei, nelle atmosfere scure e decadenti della Berlino anni ’70. Se possibile questo sembra essere il principale bacino di riferimento dell’originalità e la riconoscibilità del tuo stile. Molte cose nel primo album, The Tower nel secondo, Who Killed The Moonlight, We Wait Too Long e Red Ropes nel nuovo. E’ perché quel suono appartiene più di altri al tuo modo di far musica?
Sono sempre stata attratta da melodie drammatiche e dark. Per citare altri compositori direi che le mie maggiori influenze siano stati Lee Hazelwood e Ennio Morricone. Soprattutto nella mia canzone “Who Killed the Moonlight.” C’è una canzone di Morricone “Se Telefonando”che ha un possente coro modulato. Credo che sia una delle migliori canzoni mai scritte, da tanto tempo desideravo combinarla con uno dei miei chorus e Moonlight è stata il giusto veicolo. La maggior parte delle mie melodie sono un collage di suoni estratti dai miei sogni e a me piace dormire tanto.
Nel secondo disco la maggior parte dei brani meglio riusciti è frutto di un lavoro a quattro mani con Robert Harrison. Sono stati questi buoni risultati che ti hanno spinto a firmare molti brani insieme a Tore Johansson e Martin Gjerstad che nel primo album si erano perlopiù limitati alla fase della produzione e degli arrangiamenti?
I miei tre più importanti collaboratori in quest’album sono stati Tore, Martin e Jim Sclavunos dei Bad Seeds e dei Grinderman. Scrivo praticamente sempre per conto mio ma qualche volta, specialmente nei momenti di dramma umano e professionale, può diventare difficile esprimere ciò che vuoi dire e nello stesso tempo come lo vuoi far suonare, e così scrivere a quattro mani può aiutare. Sono passata attraverso vari compositori e molti dubbi su me stessa. Sono stata molto fortunata ad entrare in contatto con gente come Jim e a riconnettermi in un modo del tutto nuovo con Martin e Tore. Al tempo del mio primo disco non conoscevo così bene Tore e Martin, ma con il passare del tempo siamo diventati così amici che è stato naturale proporgli la scrittura a quattro mani. E’ come quando la tua macchina si guasta e devi chiamare i tuoi amici per farti dare uno strappo.
Quello che ad oggi rimane uno dei tuoi brani più memorabili The Tower è forse il solo a presentare la dilatazione tipica del brano lungo ed epico a differenza della maggior parte dei tuoi brani – anche nel nuovo disco – dove le trovate e le soluzioni musicali sono concentrate nell’arco di brani da circa 4 minuti. The Tower include inoltre un solo di chitarra elettrica particolarmente esteso. Come mai un caso così unico e isolato nel tuo repertorio?
The Tower ha richiesto molti anni per la sua composizione. E’ probabilmente uno di una manciata di brani epici formato concept che ho scritto quando ho cominciato quel disco a partire dal titolo. Posso dire con certezza che ne arriveranno altri di quel tipo, ma devono ancora essere terminati in maniera appropriata e trovare la loro collocazione nell’album giusto. Inoltre “Mondo Amore” era un concept album che metteva a tema la traumatica fine di una relazione e avevo perciò necessità di un brano finale adeguato a rendere l’idea di quanto devastante fosse quella rottura. In” Slow Phaser” era mia intenzione ottenere un distintivo synth-sound di marca progressive in armonia con un arrangiamento essenzialmente pop evitando per una volta gli assolo di chitarra. E’ chiaro che però che tornerò ad utilizzarli quando i tempi saranno maturi.
Dal primo all’ultimo album c’è stata una netta evoluzione nella precisione e pulizia del suono. Molto istintivo e distorto (anche nel suono degli archi) il primo, più definito il secondo e molto ricco e pulito Slow Phaser, per quanto l’energia di fondo sia rimasta immutata. E’ dipeso dall’aver abbracciato una varietà di stili che richiedevano un sound più pieno?
Credo che questa sia una domanda che riguardi il mixing affidato a Tore. Lui ha detto di voler mixare il nuovo album ricreando il feeling delle AM Gold, le trasmissioni radio anni ’70 e penso che ci sia riuscito pur riuscendo a modernizzarlo e ad ancorarlo saldamente al presente.
A questo proposito la novità più importante è rappresentata dall’inclusione di una forte influenza art-rock anni ’70 che nel synth solo di What Do You Know? sembra rifarsi ai Genesis del ‘78 (il Tony Banks che può essere ascoltato in Down and Out). E’ stato determinante in questo senso il background di Martin Gjerstad che risulta come co-writer?
Martin è decisamente addentro quel tipo di cose e quindi ha avuto molto peso nel portare nel brano quel tipo di sound ma la ragione principale di questa forte connotazione prog va fatta risalire a un viaggio che ho fatto in California proprio prima di recarmi in Svezia per le sessioni di registrazione del nuovo disco. Mi trovavo a Los Angeles a lavorare a un progetto parallelo, i Very Night, con il mio amico Glen, molto esperto sia di Prog che di Kraut rock. Il luogo dove scrivevamo era uno studio di produzione di film porno e quindi nel momento in cui giravano le scene non ci era consentito di stare al piano inferiore, perciò passavamo il nostro tempo rinchiusi lì dentro organizzando feste danzanti su musica dei King Crimson, Peter Gabriel, Krisma e ZZ Top. Ho ascoltato quel tipo di musica e mi sono resa conto che le canzoni che stavo scrivendo potevano essere spinte parecchio in quella direzione. Fortunatamente i due svedesi si sono dimostrati molto ricettivi al riguardo.
La stessa influenza (soprattutto il suono d’organo) si combina ad uno stile cinematografico e al lato graffiante del tuo repertorio in Gasoline Bride che ritengo il brano migliore dell’album insieme a The Worst Hangover. Qual è stata la scintilla che ti ha permesso di mettere insieme tutti questi spunti che si fondono quasi in modo da nascondersi in quello che si potrebbe chiamare un suono inconfondibilmente Atkins?
E’ anche il mio brano favorito del disco. Ho messo insieme Gasoline Bride in cinque minuti mentre stavo camminando lungo le strade di New York City. Testo, melodia e cambiamenti vari. E’ stato un momento folle che è venuto fuori dal nulla. Quando mi è arrivato l’ho anche potuto vedere distintamente. L’immagine di questa sposa con i capelli in fiamme alla guida di un camper modificato in mezzo al deserto in una sfumatura di colori da tramonto, mentre cerca disperatamente di svoltare l’angolo.
Con la tua precedente band e anche nelle esibizioni successive eri solita accompagnarti alla chitarra. Dalle immagini disponibili in rete si vede invece una nuova band con due chitarristi e con te impegnata esclusivamente a cantare le canzoni. Come hai preso questa decisione?
Perché i miei passi di danza hanno bisogno di risplendere! (ride di gusto, ndr)
Sei arrivata a realizzare questo disco dopo un periodo di incertezze e difficoltà che non ti davano garanzie di poterlo fare. Qual è stata dunque l’esperienza umana che hai vissuto e che ti ha portato a questo nuova fase del tuo percorso musicale e quali le differenze con le esperienze del passato?
Ero in questa fase un po’ da fine di un’era per quanto riguarda la mia permanenza in New York. Stanca di uscire con le persone sbagliate, di consumare le mie energie su cose sbagliate. E’ stata come la fine del dopo festa. Era un periodo in cui tutti i miei amici stavano per avere figli e sistemarsi e io ero avvolta in quest’aura di pericoloso pseudo-glamour. Il mio lavoro e la mia anima ne stavano soffrendo e io desideravo ardentemente qualcosa di reale. Suppongo fosse il momento di diventare adulti. Mi mancavano tutte le cose che mi rendevano felice prima ancora che facessi uscire il mio primo disco, che erano sempre state scrivere e disegnare. Le amicizie che ho stretto sulla strada per la realizzazione di questo disco mi hanno aiutato a riprendere confidenza e ad appassionarmi nuovamente a scrivere canzoni e cantarle. Con questo disco non avevo alcuna aspettativa nei miei confronti e perciò mi sono sentita libera di suonare, puramente e semplicemente SUONARE e catturare nuovamente quel feeling smarrito.
Il disco precedente si chiudeva in maniera epica ma con un senso di sconfitta in The Tower, mentre questo si congeda in maniera più eterea e sospesa con Above as Below che sembra ricollegarsi all’illustre precedente riaprendo una partita che prima sembrava segnata. E’ un riferimento voluto o inconsapevole?
I dischi che ho sempre amato e a cui sono ritornata più di frequente sono quelli che si chiudono con un brano epico, perciò credo che ce ne sarà sempre uno su ogni mio lavoro (purtroppo non mi era stato consentito di farlo con Neptune City, altrimenti avrei messo proprio la title track come brano finale). The Tower parlava della distruzione di una relazione che era così in frantumi che nulla di concreto ne sarebbe mai venuto ancora fuori. Above as Below invece parla di una città e di uno spirito compromesso, dove si consente che il dolore faccia il suo corso perché si possa crescere nel futuro con più bellezza, più rapidità e più forza.