Se, costretti con le spalle al muro, fossimo obbligati a stilare una lista dei più bei dischi americani legati ad un cantautorato di tipo classico usciti negli ultimi vent’anni, dovremmo inserire due, se non tre, album di Natalie Merchant. Uno in particolare, “Motherland”, pubblicato pochi giorni dopo la giravolta della Storia chiamata “11 settembre”, aveva un carisma quasi profetico. This house is on fire, “questa casa è in fiamme”: era questo l’inizio dell’album, che originariamente doveva recare in copertina una foto di bambini in maschera antigas, foto prontamente sostituita da un’immagine più rassicurante dell’artista adagiata mollemente sotto l’ombra di un albero.
Ma procediamo con ordine. Natalie Merchant, classe 1963, sangue misto italo-irlandese e pianista, autrice e interprete di classe sopraffina, aveva mosso i suoi primi passi a metà anni Ottanta coi 10.000 Maniacs, una delle tante band folgorate dalla rivisitazione in chiave moderna della tradizione americana, che aveva visto i REM aprire la strada a decine di artisti. Dei 10.000 Maniacs, la Merchant era la figura centrale sia a livello di scrittura sia a livello di presenza scenica: era lei la cantante e front-girl del gruppo, la cui storia si è dipanata per circa un decennio consegnando un lascito di una manciata di album e un ottimo live acustico registrato negli studi di MTV. Gli anni dei Maniacs sono stati per la Merchant una sorta di affinamento delle proprie doti, seppure ancora leggermente contratte da una band che spesso suonava troppo ingessata nell’esecuzione e nella quale la leader sembra procedere col freno a mano tirato.
Era naturale che, allo scioglimento del gruppo, Natalie si lanciasse in una carriera solista in cui mostrare più liberamente le proprie capacità. E in effetti, il suo esordio in solitaria fu un esordio col botto: “Tigerlily”, uscito nel 1995, fu uno dei più bei dischi di cantautorato “adulto” del decennio, undici ballate pianistiche fra lievi orchestrazioni e smosse più rock, testi che non si fermavano ad analisi intimiste ma che cercavano di sviscerare la verità nei rapporti umani e, talora, indugiavano con levità e discrezioni su tematiche sociali.
Meno riuscito fu invece il secondo album, “Ophelia”, la cui linea narrativa era improntata alla descrizione della femminilità nel suo complesso. Tuttavia, il risultato finale, nonostante la bontà del progetto di partenza, fu inficiato dalla pesantezza delle partiture orchestrali che soffocavano una scrittura non perfettamente a fuoco come nell’album precedente.
Poco male, perché dopo un intenso disco dal vivo, la Merchant dava alle stampe il suo capolavoro, di cui si è già parlato in apertura. Profetico e a tratti urticante, prodotto da T-Bone Burnett, “Motherland” appariva più duro che in passato. La linearità della scrittura propria del passato dell’artista newyorchese si rivestì di arrangiamenti più marcati, dalla ritmiche cupe ed arabeggianti dell’iniziale This house is on fire fino alle atmosfere rock apocalittiche di Saint Judas. Non mancavano certo momenti più intimisti e personali, ballate di stampo pianistico che mostravano un’osservatrice concentrata a guardare il mondo intorno a lei, come ad esempio nella meravigliosa traccia che dava il titolo al disco. Il risultato fu un disco per cui la parola capolavoro non è affatto sprecata, creatura di un’artista giunta al vertice della propria maturità compositiva e interpretativa.
Il momento di grazia continuò poi con il successivo “The house carpenter daughter”, uno dei dischi di cover più belli mai usciti, in cui la Merchant si appropriò di undici brani folk tradizionali e li rivoltò con passione e decisione, dimenticandosi dell’approccio calligrafico che normalmente accompagna i progetti che si propongono un recupero della tradizione.
Una lunga pausa di sette anni e nel 2010 Natalie Merchant ritornò sulle scene con il suo lavoro più ambizioso, “Leave your sleep”, un doppio album di canzoni ispirate all’infanzia, in cui la cantautrice si cimentava nell’adattamento lirico e musicale di 26 testi poetici britannici e americani scritti a cavallo fra il Diciannovesimo ed il Ventesimo secolo, passando in rassegna autori come Christina Rossetti, R.L. Stevenson, Robert Graves e molti altri. “Leave your sleep” era una rassegna delle capacità compositive della Merchant, un caleidoscopio di stili e di partiture musicali che vanno dal folk irlandese al ragtime, dal gospel al rock, dall’esotismo al folk austero, il cui unico limite è quello – forse – di una lunghezza a tratti eccessiva.
Era quindi logico che la nuova uscita dell’artista newyorchese fosse accompagnata da una certa curiosità, data la serie di album di spessore che ne avevano anticipato la realizzazione. Tuttavia, una volta ascoltato il nuovo album, intitolato semplicemente “Natalie Merchant” e dall’austera copertina su fondo nero in cui campeggia un ritratto della musicista sui cui tratti incominciano ad intravedersi i segni del tempo, non si può fare a meno di provare una certa delusione.
Non è un brutto disco, sia chiaro. Sprazzi di classe ce ne sono eccome e non potrebbe essere altrimenti, dato che il mestiere di autori come la Merchant spesso è capace a salvare parzialmente anche i lavori meno ispirati. Tuttavia, soffermandosi sull’atmosfera generale dei dieci brani raccolti nel nuovo lavoro (undici, considerando la breve introduzione al brano Lulu), è impossibile non notare una patina di manierismo e di già sentito, una scrittura ed un’interpretazione in cui il mestiere appare prevaricante rispetto all’ispirazione. Non che un certo manierismo mancasse anche al precedente Leave your sleep ma, mentre allora quello sembrava un approccio voluto per affrontare con disciplina i testi poetici che ne costituivano l’ossatura, in questo caso l’impressione generale è quella di un’artista che tende all’eccesso a ritornare sui propri cliché.
Oltretutto, gli arrangiamenti dei brani non aiutano certo, risultando alla lunga troppo patinati e talora resi gonfi da partiture orchestrali che ne appesantiscono la struttura essenziale (l’iniziale Ladybird, che potenzialmente sarebbe stato anche un ottimo brano se non fosse per gli insopportabili coretti di sottofondo, la tediosa Giving up everything, le conclusive Lulu e The end). Inoltre, si ha l’impressione che manchino qua e là brani che conferiscano al disco un certo “cambio di passo”, pieno com’è di composizioni adagiate su una certa ripetitività compositiva che indugia all’eccesso sui tempi rallentati.
Non mancano qua e là sprazzi di classe pura, come Go down Moses, grande canzone in cui la Merchant sfoggia una scrittura ed un interpretazione brillante e virata su toni rock-soul che esaltano il suo particolarissimo timbro vocale, oppure il folk scarno di Texas, ballata di stampo classico costruita sulla chitarra acustica ma, nonostante ciò, di forte impatto emozionale.
Anche Maggie said, il cui inizio indolente lascia presto il passo ad un crescendo di grande intensità è un ottimo brano, mentre meno riuscito appare il tentativo da big band jazzistica di Black sheep, che pur costituendo un episodio più mosso musicalmente si perde in un certo anonimato compositivo.
Impossibile, quindi, parlare di questo “Natalie Merchant” come di un disco pienamente convincente: certo, ha i suoi momenti ma per la prima volta nella sua carriera – anche “Ophelia”, pur non essendo un lavoro pienamente riuscito, mostrava un coraggio artistico nettamente superiore – la Merchant appare troppo concentrata a guardarsi indietro. Forse si potrà parlare di appagamento dopo il raggiungimento della piena maturità artistica, forse è soltanto un momento di appannamento, cui seguiranno altre prove più convincenti. È certamente troppo presto per dirlo, non ci resta che attendere, mettere i brani buoni di questo nuovo disco nelle nostre cassette C-90 e, magari, andare a riascoltare per intero i dischi precedenti.