Cosa hanno in comune Detroit e Londra alla fine degli anni 60? Nulla, esattamente come oggi. Difficile immaginare due città più agli opposti. La Swingin’ London di quel periodo era una delle capitali più effervescenti ed eccitanti, Detroit una delle metropoli più decadenti, con i suoi ghetti, la crisi dell’industria automobilistica, i suoi disoccupati e disperati. Londra è ancora oggi una delle capitali più eccitanti del mondo seppur non più swingin’, Detroit è ancora una delle città più decadenti: pochi mesi fa ha addirittura dichiarato bancarotta.



Eppure, per gli strani casi del destino, in città così diverse fra loro in quell’ultimo scorcio degli anni 60 muovevano i loro passi due figure accomunate da molte cose. In primis, il male di vivere. E poi l’amore per la musica.

Se a Londra Nick Drake il male di vivere lo assumeva in sé e lo descriveva con allucinante realismo nelle sue canzoni, a Detroit Rodriguez raccontava il male di vivere che vedeva intorno a sé: “Born in the troubled city in Rock and Roll, USA”, nato in una città piena di guai, negli Stati Uniti del rock’n’roll.



Ma c’era qualcosa che li avrebbe accomunati per sempre: la mancanza del successo, il riconoscimento pubblico delle loro immense capacità artistiche. Con la differenza che questo mancato riconoscimento lo avrebbero vissuto diversamente. 

Il che pone una domanda cruciale per tutti: che cosa è veramente il successo? Cosa significa essere riconosciuti e apprezzati o no dal grande pubblico per le tue capacità? Cambia il tuo modo di fare arte e anche di condurre la tua esistenza? E’ una domanda che è errato pensare sia rivolta solo a chi ha, o pensa di avere, delle capacità particolari. In realtà riguarda noi stessi come persone, perché il “successo”, anche se oggi parola scaduta a puro mercimonio, insomma vali sei sei qualcuno che fa soldi e sei il capo di un certo numero di disgraziati dipendenti (normalmente da sfruttare senza pietà), riguarda invece il nostro desiderio di realizzazione come persone. E’ la nostra costituzione naturale che chiede che noi ci affermiamo, troviamo un volto, una espressività. Il che vale anche quando si lavano i piatti o si cambiano i pannolini, anche se nessuno oggi lo vorrebbe ammetere.



Difficile rispondere. Uno che di queste cose se ne intende, Bob Dylan, in  una sua canzone aveva detto: non c’è successo come il fallimento, e il fallimento non è un successo per nulla. Il quale Bob Dylan diceva anche: “Sei una persona di successo se ti svegli al mattino, vai a letto la sera e in mezzo riesci a fare le cose che ami”.

Pur essendo due tipologie di artisti e di uomini diversissimi, l’inglese Nick Drake e  l’ispano americano Rodrguez avevano molto in comune. La voce, prima di tutto, inesorabilmente piegata alla sofferenza e a un senso della malinconia di proporzioni enormi. La delicata appartenenza al mondo del folk, tutti e due ammiratori di Bob Dylan, specialmente Rodriguez che ne avrebbe ripreso anche l’incedere vocale tipico, con quel passo incalzante e cadenzato. Ebbero in comune anche dei produttori che amavano circondarli di delicati quartetti d’archi, accompagnamenti orchestrali che sottolineavano la tristezza cosmica delle loro composizioni. 

Ma ebbero soprattutto una cosa in comune: la totale mancanza di riconoscimento pubblico del loro lavoro. Per Nick Drake questo avrebbe significato un dolore così grande da condurlo alla morte in un modo ancora oggi misterioso: suicidio o errore nell’assunzione di farmaci anti depressione? Per Rodriguez sarebbe stata invece una morte pubblica, invece che fisica, con una riscoperta tardiva che non avrebbe cambiato una virgola dell’immenso spreco di talento che tale mancanza gli avrebbe procurato.

 

Ci si potrebbe anche divertire a tracciare alcuni parallelismi tra le canzoni dei due, incise più o meno nello stesso arco di tempo che va dal 1968 al 1970. Cominciando ad esempio da quel desiderio di escapismo artificiale che certamente accomunava tutti i giovani dell’epoca, persi in paradisi artificiali dove potevano correggere la realtà nel modo preferito. Ma se in quell’epoca che era il massimo splendore dell’utopia hippie ci si drogava per rendere al massimo le buone vibrazioni di pace & amore, Rodriguez e Nick Drake piuttosto sembrano affogare in un tunnel oscuro e spaventoso, profetici nel loro aver capito il male nascosto nel mondo della droga. Sugar Man, un po’ la canzone simbolo del primo, invoca il Tambourine Man di dylaniana memoria, lo spacciatore in grado di affievolire il dolore del vivere: “fa’ presto, perché sono stanco di queste scene, per una monetina triste non mi daresti indietro tutti i colori dei miei sogni, magica nave argentata che trasporti anfetamina, coca, la dolce Mary Jane”, che era ovviamente la marijuana. La stessa Mary Jane di cui canta Nick Drake in The Thoughts of Mary Jane: “Chi conosce davvero i pensieri di Mary Jane, quando vola o esce fuori nella pioggia?”. 

 

Così le città di appartenenza dei due non soon un posto dove fuggire come nell’etica comune del rock’n’roll, per quanto siano orribilmente claustrofobiche, ma sono luogo di appartenenza nella sconfitta: “Born in the troubled city in Rock and Roll, USA, in the shadow of the tallest building, I vowed I would break away, listened to the Sunday actors but all they would ever say that you can’t get away from it no you can’t get away”. In At the Chime of a City Clock di Drake c’è lo stesso sentiment di ineludibile resa: “A city freeze get on your knees pray for warmth and green paper. A city drought you’re down and out see your trousers don’t taper. Saddle up kick your feet ride the range of a London street travel to a local plane turn around and come back again”. Non si fugge dal proprio male, ovunque si vada, e allora tanto vale restarsene fermi.

 

Street boy, ragazzo di strada, canta Rodriguez nell’omonimo brano, non ne hai ancora avute abbastanza per volertene tornare a casa, finirai per rimanere solo. E’ così sarà per tutti e due, ma in modo diverso. In modo profetico Rodriguez sembra aver già percepito la fine che lo attenderà di lì a poco. L’oblio. Nick Drake invece si accanisce, maledetto da quella luna rosa che non lo lascia appoggiare la chitarra in un angolo come invece farà l’americano, incidendo il suo ultimi drammatico collage di follia e delusione poco prima di morire in totale solitudine, nel 1973, proprio mentre dall’altra parte dell’oceano Rodriguez prova a fare un ultimo tentativo discografico, fallito ancor prima di averlo finito. 

Tutti e due accomunati da un senso della melodia fuori del comune, da una voce in grado di allargare in modo cosmico canzoni già belle, quasi i due non ci stessero dentro la finitezza di una canzone, così limitata ad esprimere quello che portavano nel cuore. Un senso della melodia come raramente accaduto nella storia della musica, una bellezza non misurabile e impossibile da ridurre, è quella che fa eco nelle incisioni di questi due straordinari artisti. Ecco perché, pur lavorando con alcuni dei migliori produttori della scena, essi stessi non sapevano come rendere al meglio le loro canzoni, che per entrambi restano così, indefinite, quasi abbozzate, rimandanti a un oltre che nessuno sa cogliere. E’ troppo grande, troppo bello, troppo misterioso quello che esprimono. Drake, immerso in quell’immaginario folk antico di millenni, Rodriguez, in quella musica dell’anima che è l’anima dell’America stessa.

 

E torna allora incalzante la domanda dell’inizio: cosa è davvero il successo? Nick Drake ci si dispererà sopra per tutta la sua breve vita fino a morirne, probabilmente di crepacuore: perché i miei dischi se sono così belli non vendono, chiederà spesso a chi quei dischi dovrebbe riuscire a venderli. Rodriguez invece apparentemente non se ne farà un problema. I miei dischi non vendono e non me ne fanno fare più? Bene ho comunque una vita da vivere. Avrà dei figli, educati alla bellezza sempre e comunque, all’onestà e all’integrità. Farà l’operaio, si spaccherà la schiena a portarci sopra mobili e frigoriferi, ma sempre “come se avesse indosso un frac” dirà un collega, perché l’immensa dignità dell’artista non scompare quando essa coincide con la dignità della persona. Magari non aver avuto successo ha fatto del bene a quest’uomo: a quei tempi, ma anche oggi, si muore facilmente per il troppo successo. Rodriguez, contraddicendo il vecchio detto che in America non esiste un secondo tempo, questo secondo tempo lo ha pure avuto, quando qualcuno si è messo in cerca del Sugar Man riportandolo alla vita nel bellissimo film documentario che tutti adesso hanno visto. Ma non è stato in realtà un ritorno al futuro di quel successo che non aveva avuto da giovane, si è trattata di una pura operazione curiosità, vedere il morto che torna dall’inferno. Che certo gli ha portato soldi ben meritati in cassa, ma non ha riaperto alcun discorso artistico. Chi lo ha visto recentemente sul palco a Milano ha raccontato di un morto che cammina, incapace quasi di reggersi in piedi e di cantare. Ma va bene così, perché Rodriguez ha lanciato comunque una lezione al mondo effimero e banale dell’arte musicale: non c’è successo come il fallimento, e il fallimento non è un successo per nulla. Lui ha fatto della sua vita un successo, portandola avanti con dignità estrema, preoccupato dell’istante e del reale, non del sogno a tutti i costi. 

 

La risposta al quesito? Sta nel cuor di ciascun uomo. Ma forse ci vengono in aiuto le parole di Patti Smith, anche lei sparita dalle scene musicali all’apice del successo, poi tornata, ma mai come prima, ma con una consapevolezza diversa: “Fatevi un buon nome, cercate di mantenerlo pulito. Non fate compromessi, non preoccupatevi di fare un mucchio di soldi o di avere successo. Preoccupatevi di fare un buon lavoro. Difendete il vostro operato e se vi costruirete un buon nome, quello alla fine sarà la vostra valuta”.

 

E’ un mistero affascinante quello che lega le figure di Rodriguez e Nick Drake, che questo articolo non ha minimamente scalfito, ma solo sfiorato. Buttati fuori da un certo tipo di mondo che non era in grado di accettare le loro anime gentili, ci hanno lasciato canzoni straordinarie. In una delle sue ultime, I’ll Slip Away, Rodrguez, con quella capacità profetica che aveva sempre dimostrato, diceva: “Puoi tenerti i tuoi simboli di successo e io inseguirò la mia felicità, puoi tenerti i tuoi orologi e le tue routine, io andrò a riparare i miei sogni frantumati”. Lo ha fatto, e lo ha fatto bene. E la felicità probabilmente l’ha trovata lontana dal successo.