Quando nel 1998 David Gray pubblica il disco “White Ladder” non pensa certo che due anni dopo diventerà un best seller a livello mondiale. Lui infatti lo pubblica in modo indipendente, convinto che seguirà la sorte dei due precedenti dischi che ha già inciso, cioè lo compereranno solo in pochi. Il disco invece finisce nelle mani del cantante e leader della Dave Matthews Band che nel 2000 lo fa ripubblicare per una etichetta con distribuzione mondiale.
Poco dopo succederà anche a un collega irlandese, tale Damien Rice, che pubblicato sommessamente un disco intitolato “O”, nel giro di pochi mesi lo vedrà frantumare ogni classifica di vendita. Che sta succedendo? Niente, succede quel che è giusto succeda. Ciclicamente e per motivi misteriosi, il grande pubblico scopre e riscopre la bellezza senza fine della canzone d’autore.
David Gray e Damien Rice sono solo gli ultimi affidatarii di una torcia che non smetterà mai di bruciare fino a quando un uomo sulla terra saprà cantare. “Ancora oggi ci sono in giro un sacco di bravissimi cantautori, ma è difficile per loro farsi notare. Il mainstream è molto ostile nei loro confronti. La musica è diventata una forma di stupidità conclamata e cercare di darle un significato oggigiorno non è cosa facile. Faccio parte di una tradizione molto ricca, quella dei cantautori, ma non puoi stare fermo sui tuoi allori, c’è una sfida dietro ogni angolo, devi stare sempre con la guardia molto alta” dice David Gray in questa intervista che presenta il suo nuovo disco, “Mutineers”. Un disco che se nei suoni si discosta da quanto fatto in precedenza, di canzoni ne ha sempre di bellissime. Ecco cosa ci ha detto.
Qualche mese fa, ben prima che il disco uscisse, durante alcuni concerti americani hai suonato “Mutineers” per intero. Come mai? E’ una cosa che succede molto ma molto raramente.
Non penso che nessuno si aspettasse che avrei suonato il disco per intero, ma decisi che avrei fatto proprio così. Avevo edho grande fiducia in questo disco, sentivo che le canzoni erano forti abbastanza per venire proposte dal vivo senza che nessuno le avesse mai ascoltate prima. E’ stata una dichiarazione di intenti. Non me la sentivo di fare quattro o cinque canzoni nuove, passare a quelle vecchie e poi fare altre canzoni nuove. Così decisi che l’unico modo possibile era di suonare tutte le canzoni nuove di seguito e poi alla fine qualche canzone vecchia. E ha funzionato.
Come ha reagito il pubblico?
Ascoltavano ed erano evidentemente compiaciuti. Potrei dire che è stata una sorta di incantesimo, per loro. Credo che queste canzoni nuove abbiano una sorta di autorità, sono molto immediate sebbene anche parecchio intricate. Ma mi è sembrato si sia creata tra il pubblico e le canzoni una relazione immediata.
Sei riuscito a riprodurre il suono che hanno in studio? E’ una produzione un po’ particolare, è difficile riprenderla dal vivo?
Suonare dal vivo ovviamente è diverso dal suonare in studio, ma abbiamo fatto un grosso sforzo per riportare sul palco tutti i suoni usati in studio in modo che la gente potesse ascoltare per quello che era effettivamente. Per quanto è stato possibile abbiamo cercato di ricrede il disco in studio. Dal vivo poi è ancora meglio, puoi estendere e portare avanti certe intuizioni in modo tale che diventi qualcosa di diverso. L’emozione di esibirsi dal vivo e l’energia che ci metti ti permette di avere delle differenze di suono.
E la band? Come si è comportata?
La band è entrata dentro ogni singola canzone esprimendo qualcosa in più rispetto allo studio. Ci sono otto persone nella band, tutti cantano, nel disco ci sono arrangiamenti vocali molto significativi, così è stato importante rendere loro giustizia dal vivo.
Un disco dal suono particolare, diverso da quanto hai mai fatto prima. Sei entrato in studio con le idee chiare o hai trovato la strada una volta che avete cominciato a registrare?
Sapevo quello che non volevo, ma non sapevo cosa volevo così ci ho messo un po’ a trovarlo. Non volevo ripetermi, e sapevo che avrei avuto bisogno di qualcuno che mi aiutasse. Qualcuno che avesse le chiavi della città del suono che cercavo e mi ci è voluto un po’ per trovare la persona giusta.
Cioè Andy Barlow. Il suo tocco in effetti si sente (noto per il suo lavoro con la band di elettronica dei Lamb, ndr).
Con lui ogni cosa ha funzionato. Abbiamo cominciato facendo delle specie di esperimenti. Non è stato facile aprirsi con un’altra persona dal punto di vista creativo, ma gli dissi: non farmi fare lo stesso disco che ho fatto in precedenza, fammi uscire dalla mia zona di sicurezza.
Come è accaduto?
In molte occasioni non è stato facile, perché non sapevo cosa stavo facendo. Ma scoprire cose per la prima volta è sempre molto eccitante e credo siamo stati in grado di catturare questa emozione. Abbiamo lavorato senza una mappa, così ogni volta che scoprivamo qualcosa che funzionava, era davvero fantastico. Ad esempio in canzoni come Mutineers e Beautiful Agony. E’ stato allora che ho cominciato a capire che tipo di disco stavamo facendo. Fu un grande momento capire di trovarci in un territorio del tutto nuovo.
Hai citato Beautiful Agony che è una delle canzoni più interessanti del disco. Ci puoi dire come è nata, che cosa significa?
Mi presentai da Andy con alcune canzoni che avevo scritto. Queste sono le canzoni che voglio nel disco, dissi. E Andy scosse la testa, disse che prima dovevamo provare un po’. Non sapeva come comportarsi con quelle canzoni, alcune gli sembravano troppo alla Bob Dylan, altre troppo alla Van Morrison. Così mi chiese se non ne avessi altre. Non ci potevo credere: gliene avevo già portate 30, 40! Allora gli suonai la melodia di Beautiful Agony di cui non avevo ancora le parole.
E lui?
Disse: bella, lavoriamo su questa. Pensai: questo è pazzo, abbiamo un sacco di canzoni finite e vuole lavorare su questa che è incompleta. Acconsentii, ma solo per un giorno. Alla fine della giornata aveva preso una strada davvero interessante, Andy aveva fatto davvero un bel lavoro. Così improvvisamente mi vennero anche le parole e ci rimettemmo al lavoro usando un sacco di effetti bizzarri: distorsioni, rumori vari e mi sembrò tutto incredibilmente bello. Andy aveva vinto la mia fiducia.
Chi sono gli ammutinati (la canzone che intitola il disco, Mutineers, ndr)?
Per questo disco ero il capitano della nave ma ero anche gli ammutinati che gettano il capitano in mare. Per riuscire a fare questo disco mi sono dovuto per così dire buttare giù dalla nave. Così gli ammutinati sono io, ma in fondo siamo tutti degli ammutinati nella vita.
Hai già un allunga carriera alle spalle, cosa significa oggi per te scrivere una canzone? E’ una questione di talento naturale o di duro lavoro?
Al momento sto vivendo una situazione creativa molto stimolante, come un risveglio. Tre anni fa vedevo solo strade senza sbocco, adesso vedo un mare di possibilità. Con Andy al mio fianco, ho già voglia di incidere un nuovo disco. Credo di stare avviandomi verso un periodo molto creativo. E’ stato un duro lavoro arrivare fino a qui ma non significa che adesso sia più facile scrivere canzoni. Che cosa rende una canzone qualcosa di santo, qual è l’ingrediente magico, è difficile da dire. Non è qualcosa che tiri fuori dal nulla, devi lavorarci sopra e sfidare te stesso e strappare tutto in ordine di arrivarci.
L’enorme successo commerciale del tuo disco “White Ladder” e quello in contemporanea di Damien Rice con “O” hanno riaperto il successo alla canzone d’autore. Perché secondo te?
Ancora oggi ci sono in giro un sacco di bravissimi cantautori, ma è difficile per loro farsi notare. Il mainstream è molto ostile nei loro confronti. La musica è diventata una forma di stupidità conclamata e cercare di darle un significato oggigiorno non è cosa facile. Faccio parte di una tradizione molto ricca, quella dei cantautori, ma non puoi stare fermo sui tuoi allori, c’è una sfida dietro ogni angolo fedi stare sempre con la guardia molto alta.
(Grazie a Eleanor de Veras per l’aiuto nella stesura del pezzo)