Il Miami, il popolare festival tutto italiano organizzato da rockit, festeggia quest’anno il primo decennale e si presenta come sempre in grande stile. Tre giorni di musica, tre palchi, dj set conclusivo per tutta notte e una serie di iniziative parallele che vanno dal fumetto al contest letterario. Un bill come sempre molto vario, che presenta un ampio spettro di realtà che vanno dalla band esordiente al gruppo già affermato. Una formula collaudata e vincente, forte anche della regola che impedisce ad ogni gruppo di essere presente per due anni di fila. 



La location è sempre la solita, il circolo Magnolia di Segrate, all’interno del parco dell’Idroscalo, un luogo che garantisce ombra e prati a volontà, per chi volesse prendersi una sosta tra un gruppo e l’altro. Attorno, un piacevole contorno di bancarelle di libri, dischi, vestiti, stand delle case discografiche degli artisti partecipanti e chi più ne ha più ne metta. 



Per quanto mi riguarda, è ormai un appuntamento fisso da diversi anni. Questa volta, data anche l’importanza della ricorrenza, ho deciso di essere presente a tutte e tre le giornate. Questo il resoconto più o meno esauriente di quel che è venuto fuori, considerando che la coincidenza di orari nel running order dei vari palchi, ha costretto spesso e volentieri a scelte e rinunce dolorose.

Venerdì 6 giugno 

I primi a suonare sulla Collinetta, e quindi di fatto ad aprire il MiAmi 214, sono il gruppo bustocco dei Gouton Rouge, per la prima volta al Magnolia. Partono potenti, si vede che sono emozionati per l’idea di suonare a un festival di questo calibro, e questo li ingessa un po’. Sono migliori rispetto al disco, più convincenti e capaci. Lo show è per pochi intimi, a malapena una ventina. Ma nonostante tutto, il loro concerto è godibile, niente di eccelso o di riprovevole. Alla fine, si dimostrano all’altezza degli altri gruppi che saliranno sullo stesso palco nel corso della giornata.



(Gianluca Porta) 

Con l’arrivo dei Lantern ci si sposta in territori decisamente più pesanti: già le magliette indossate dai componenti del gruppo, che vanno dai Fugazi, ai Black Sabbath e ai Nirvana, rivelano una certa varietà di intenti ma sicuramente un amore per la pesantezza sonora. E definirli devastanti è dire poco: dopo avere massacrato (in senso buono, perché ne è uscito un gran pezzo) la “Famous Blue Raincoat” di Leonard Cohen, si sono lanciati in un set breve e intensissimo, dove sono stati i brani di “Diavoleria”, il loro ultimo lavoro, a fare da padrone. Per una mezz’ora è stato un tripudio di emocore dominato da atmosfere claustrofobiche, riff assassini e urla lancinanti a fare la parte delle linee vocali. Qua e là, inserti d’atmosfera accompagnati da recitativi che ricordano non poco  dei  Massimo Volume maggiormente arrabbiati. Affascinanti, nonostante non siano cosa per tutti. 

(Luca Franceschini) 

Adesso è il turno dei Go!Zilla, band di rock psichedelico da Prato, di calcare il palco e suonare per il pubblico, sempre in aumento della collinetta. Si dimenano sul palco, fanno di tutto per attirare l’attenzione, ma in generale il pubblico appare distaccato. Il loro live è dozzinale e non comunica niente, piuttosto anonimo e non ai livelli del resto della giornata, con il bill della quale stonano un po’. Unica nota positiva è che il cantante, prima di iniziare ha dedicato il live agli Appaloosa, “l’unica band che stimo”.

(Gianluca Porta) 

La giornata al palco principale, il famoso Pertini, si apre all’insegna degli Egokid. Il gruppo nel quale milita Diego Palazzo, spesso e volentieri chitarrista aggiunto nei Baustelle, dopo tre dischi in inglese e tre in italiano ha trovato la quadratura del cerchio e l’ultimo “Troppa gente su questo pianeta” è uno splendido esempio di pop sopraffino, orecchiabile e irresistibile. 

Suoni ottimi, professionalità da vendere, il loro è uno show coinvolgente e tecnicamente impeccabile, ravvivato anche dalla presenza di un nutrito gruppo di studenti della scuola media dove insegna Palazzo, che non hanno mancato di far sentire il loro entusiasmo. 

Poco tempo a disposizione, giusto per inanellare gli episodi più importanti dell’ultimo disco, tra i quali spiccano la splendida ballata “La madre”, la trascinante “Noi non balliamo più” e naturalmente “Il re muore”, scritta assieme a Samuele Bersani. 

C’è tempo anche per un paio di estratti dal precedente “Ecce Homo”: “Non si uccidono così anche i cavalli”, ottimamente interpretata dal tastierista Piergiorgio Pardo e, a concludere il tutto, il classico “L’uomo qualunque”, durante la quale il pubblico, nel frattempo divenuto numeroso, sceglie di partecipare a dovere.

(Luca Franceschini)

 

 

È poi il momento di Paletti ed anche per questo la giornata di oggi si conferma la migliore per quanto riguarda il palco principale. L’ex bassista dei The Record’s si era esibito qui due anni fa con la sua band ma è nel frattempo divenuto un autore di altissimo livello e la sua carriera solista sta decisamente decollando. Si presenta dal vivo con una formazione a tre, comprendente, oltre al suo basso e alla sua voce, una tastiera e una batteria. Niente chitarre dunque, ma grande spazio a ritmi elettronici che rendono il tutto ancora più ballabile. 

Scherza e interagisce col pubblico, arricchisce alcuni pezzi con lunghe e ipnotiche improvvisazioni strumentali, e presenta una splendida versione di “Storia d’amore” di Celentano. In mezzo, una breve ma efficacissima selezione di brani del suo repertorio, che col temperamento ironico che lo contraddistingue, offrono una lucida analisi della condizione della modernità. Canzoni come “Cambiamento” o il nuovissimo singolo “La gente siamo io e te”, dicono in modo semplice una verità che sarà anche scontata ma che sarebbe sempre meglio ribadire: serve a poco lamentarsi, quel che conta è che ognuno si sbatta per quello che ritiene giusto e si prenda le proprie responsabilità. In un paese in cui è sempre colpa degli altri, anche brani del genere arrivano graditi. 

Qualcuno dice già che è il nuovo Battisti: di sicuro la stoffa non gli manca. Stiamo a vedere… 

(Luca Franceschini) 

 

E venne il momento della premiata ditta Brunori SAS. Dario Brunori, cantautore di origini calabresi ma da tempo trapiantato a Milano, lo avevo scoperto quattro anni fa proprio qui al Miami, quando avevo sbirciato curioso uno scampolo della sua esibizione alla Collinetta, prima di tuffarmi nello show dei Perturbazione. 

Di anni ne sono passati pochi ma di acqua sotto i ponti ne è scorsa tanta: oggi Brunori è al terzo disco, quello che, a quanto pare, segnerà il suo passaggio alla tanto desiderata quanto odiata e temuta dimensione “mainstream”. Arriva al Miami per la terza volta, poche ore dopo aver aperto il concerto di Ligabue a San Siro. Un avvenimento che ha innescato le solite, inevitabili polemiche ma che a ben vedere è stata un’occasione di visibilità troppo grossa per lasciarsela scappare. 

Aveva già suonato da headliner due anni fa ma questa sera la presenza dei Tre Allegri Ragazzi Morti lo costringe in posizione arretrata. Poco male, perché a guardare quello che succede sotto il palco, sembrano proprio tutti qui per lui. 

Si parte con “Arrivederci tristezza” ed è già tutto un coro unico. Band allargata per la presenza di un flauto e di un violoncello, essenziali per riprodurre gli arrangiamenti più sofisticati dell’ultimo disco. Un concerto travolgente e irresistibile come sempre, il suo, arricchito da quella simpatia che è ormai un marchio di fabbrica (“Perché mi chiamate Bruno? Mi chiamo Dario!” Oppure, dopo aver visto le prime file scatenarsi su “Mambo reazionario”: “Ma come si fa a pogare con Brunori? Non siamo mica a un concerto dei Sepultura!”). Alla fine l’ironia gli si ritorce contro perché è costretto a tagliare un pezzo rispetto alla scaletta prevista (“Ho parlato troppo, è giusto così”) ma dato il livello della prestazione, sono in pochi a lamentarsi. 

Setlist fortemente incentrata su “Il cammino di Santiago in taxi” un disco che, come dicevamo, non è certo ispirato come i due precedenti ma che, come spesso accade, è quello che i presenti sembrano apprezzare di più. I fan della prima ora possono comunque godere di ottime esecuzioni di “Come stai” e “Guardia 82”, oltre che di una divertente rivisitazione in chiave New Wave di “Lui, lei, Firenze”, con tanto di citazione iniziale dei Diaframma, giusto per ricordare chi sta per iniziare ad esibirsi sull’altro palco. 

Alla fine ha vinto lui, come era lecito aspettarsi. Ma rimane un po’ di amaro in bocca al ricordo del concerto di due anni prima e non temiamo di tirarcela se pronunciamo la famosa frase “Era meglio quando non era famoso”. 

(Luca Franceschini) 

 

Terminato il set di Brunori, c’è giusto il tempo di correre alla Collinetta per vedere la fine del concerto dei Diaframma. In realtà siamo più o meno a metà: atmosfera caldissima, affollamento notevole e macello mostruoso nelle prime file. Federico Fiumani, del resto, merita questo e altro. Una delle ultime vere leggende del rock italiano, uno che, probabilmente, il rock italiano l’ha addirittura inventato. Prima che i Litfiba uscissero con “Desaparecido” lui era già lì con “Siberia”, a far parlare di New Wave in un paese dove si poteva credere ancora che fosse la marca di un detersivo. Non sono mai esplosi commercialmente come i loro colleghi fiorentini ma forse perché, tra i due, sono quelli che sono rimasti maggiormente fedeli alla linea. Negli anni sono passati attraverso molti cambi di formazione, hanno pubblicato dischi bellissimi e dischi meno belli (l’ultimo “Presi nel vortice” appartiene a questa categoria) ma Fiumani è sempre stato lì, a raccontare la vita in maniera autentica come pochi sanno fare. Il live di stasera ne è una fulgida testimonianza: il carisma che emana da questo cinquantaquattrenne agghindato in un paio di jeans scuri e una camicia azzurra è assolutamente straripante e l’impressione è che basti la sua sola presenza sul palco per garantire che il concerto decolli, indipendentemente da quello che poi verrà suonato. Il repertorio è vastissimo, con quasi venti dischi in studio all’attivo, ma si punta comunque su cartucce pesanti, senza per forza fossilizzarsi sui soliti classici: al di là di “Siberia” (che mi perdo, visto che l’hanno fatta all’inizio) e “Amsterdam”, ci sono altri pezzi da novanta come “L’orgia”, “Madre superiora” e la splendida ballata “L’odore delle rose”. Chiude in bellezza “Grande come l’oceano”, a suggellare un concerto che alla fine, probabilmente, risulterà il migliore di tutti e tre i giorni. 

(Luca Franceschini) 

 

I Non Voglio Che Clara li attendevo con ansia, dopo che me li ero persi qualche mese fa alla presentazione milanese del loro nuovo “L’amore finché dura”. Per la seconda volta sono headliner alla Collinetta, anche se stasera, per fortuna, la gente è più numerosa (ma due anni fa dovettero vedersela coi Verdena, proprio non c’era partita). Si parte con “Le anatre” e si capisce subito che la scaletta sarà incentrata sul nuovo disco. Il loro rock cantautorale tristissimo e leggermente velato di elettronica non è certo la cosa più immediata del pianeta ma è difficile non rimanerne affascinati. Fabio De Min è un paroliere sofisticato, scrive cose profonde senza essere stucchevole o intellettualoide come può essere talvolta la tentazione di alcuni colleghi. È anche un musicista preparatissimo e nel suo continuo alternarsi tra chitarra e tastiera detta sapientemente i tempi dello show. Uno show che, dicevamo, è costruito quasi unicamente dai brani del nuovo album: “Le mogli”, “l’escamotage”, “Lo zio”, sono tutti pezzi straordinari, di un lavoro che è la chiara testimonianza di una band in costante maturazione. Poche concessioni al vecchio repertorio, ma una straordinaria “La mareggiata del 66” è già un motivo di soddisfazione notevole. Purtroppo, dopo circa mezz’ora dall’inizio, è tutto già finito. Le grida di insoddisfazione del pubblico sono senza dubbio più che giustificate ma c’è poco da fare. Considerando che erano il gruppo principale di questo palco, avrebbero meritato un trattamento migliore. La loro rimane comunque una prestazione maiuscola. 

(Luca Franceschini) 

 

 

Ormai a tarda serata e a Pertini pienissimo, arrivano i Tre Allegri Ragazzi Morti, un gruppo che ha ridato vita alla musica italiana ormai vent’anni fa, in quel di Pordenone. Si presentano con le classiche maschere, aprono con “Il principe in bicicletta”, e tutto il pubblico inizia subito a scatenarsi. Pian piano l’atmosfera si scalda e i Ragazzi Morti continuano ad accelerare il concerto, non fanno quasi pausa fra una canzone e l’altra. Poi, all’improvviso escono, e tutto il Pertini inizia a cantare “Vaffanculo”. Dopo un rapido cambio d’abito (Toffolo si toglie la mimetica e rimane in maglietta), ricominciano a suonare, più energici e potenti di prima. A un certo punto, dopo aver chiesto a tutti di mettere via cellulari e macchine fotografiche, annunciano di voler fare un esperimento, una cosa mai accaduta dal 1994: fare una canzone senza maschera. Toffolo attacca, ma si ferma quasi subito per rimproverare uno che la macchina fotografica non l’aveva messa via. Fatto sta che il concerto continua, con una canzone dedicata al Miami e il pubblico viene sempre di più catturato dal gruppo. Si vede che hanno esperienza, che sanno come tenere in mano l’attenzione del pubblico e mantenere viva l’attenzione, e infatti il concerto è godibile. Per le ultime due canzoni chiede al pubblico, e nel baccano più totale, vengono fatte “Mio fratellino ha scoperto il rock’n’roll” e “Di che cosa parla veramente una canzone”. Gli headliner del venerdì non deludono, senza mai scadere nella pretenziosità (rischio possibile a questo livello e in questo ambito), ma il concerto non riesce ad essere il vero evento della giornata, complice probabilmente una band rodatisssima ma che ormai va avanti un po’ col pilota automatico. 

(Gianluca Porta) 

 

 

Si rimane alla Collinetta perché in nottata arriva il progetto “Spartiti”, messo in piedi da Max Collini degli Offlaga Disco Pax, che legge le sue cose sopra le basi chitarristiche e campionate di Jukka Reverberi, una delle menti creative de I Giardini di Mirò. La recente scomparsa di Enrico Fontanelli, che degli Offlaga era l’anima musicale, lascia diversi dubbi sulla sopravvivenza del gruppo reggiano. Probabile dunque che nel prossimo periodo vedremo Collini sempre più impegnato in cose di questo tipo. Nello specifico, si tratta di un reading di prose (di cui viene distribuita la scaletta poco prima dell’inizio), alcune inedite dello stesso Collini, altri di scrittori scomparsi come Tondelli o ancora viventi come Gianluca Morozzi. È l’una di notte ma non se ne accorge nessuno: Max ha un carisma innato e riuscirebbe a rendere avvincente una lista della spesa, figuriamoci dunque se legge i suoi divertenti spaccati di vita, dove personaggi troppo assurdi per sembrare veri e che invece sono verissimi, agiscono sullo sfondo di una Emilia profondamente comunista ma anche profondamente umana. 

(Luca Franceschini) 

 

 

Sabato 7 giugno 

La giornata di sabato inizia a metà pomeriggio, in quella che è una delle prime giornate caldissime di questo mese di giugno. La Collinetta offre comunque ombra e refrigerio in abbondanza e dato che le cose più interessanti di oggi si svolgeranno qui, ci sentiamo piuttosto fortunati. 

 

Lucio Corsi è un ragazzino di 19 anni che ha appena esordito con “Vetulonia Dakar”, un ep di cinque pezzi che è una delle cose più interessanti uscite quest’anno dalle nostre parti. 

Nella giornata di sabato ha l’arduo compito di aprire le danze alla Collinetta, quando ci sono poche decine di persone sedute sull’erba e il sole cocente sembra essere ancora l’unico protagonista. 

In realtà, quello che è il suo primo concerto in assoluto dalla pubblicazione del disco, si rivela essere più che fortunato. Lucio è simpatico e spigliato, si presenta da solo sul palco con la sua chitarra acustica e in poco più di un quarto d’ora ci regala i cinque pezzi dell’ep più l’inedito “Albero”, che non fa che acuire l’attesa per un full length vero e proprio. 

Canzoni bellissime nella loro semplicità e verità, pezzi che lasciano a casa la tristezza introspettiva per abbracciare una solarità fatta di rapporto con la terra in cui si è cresciuti, la natura, gli animali, gli amori e le simpatiche prese in giro ai propri amici. Il tutto raccontato con una scrittura surreale che affascina e diverte. Tra Dente e Babalot, con la sicurezza e l’ingenua spavalderia che probabilmente aveva anche il giovane Bob Dylan al suo arrivo a New York. Decisamente la seconda giornata non poteva iniziare in modo migliore.   

(Luca Franceschini) 

 

Salgono sul palco della collinetta le Lovecats, un duo femminile proveniente dal veneto, voci, chitarre acustiche e un session man alla batteria. Dopo un primo brano impacciato, si scaldano e iniziano a prendere confidenza con il pubblico, che aumenta progressivamente. Intervallando pezzi del loro EP “Almost Undone” con inediti, creano un concerto che è un costante crescendo. Terminati i brani già conosciuti con una coraggiosa versione punk di “Anna”, ci si avvia verso la coda finale, fatta completamente di inediti. Il concerto si chiude con una canzone, a metà tra il sussurrato e l’urlato, che fa innamorare tutta la collinetta.

(Gianluca Porta)

 

 

Gli Own Boo vengono da Brescia, sono giovanissimi e hanno all’attivo un solo ep di quattro pezzi, stampato rigorosamente in vinile. Un esordio folgorante, un impatto travolgente e una scrittura di livello altissimo. Dal vivo, mantengono tutte le promesse e anche di più. Ottantiani nel look, moderni nel suono fragorosamente chitarristico, incantano gli ormai numerosi presenti col loro shoe gaze venato di post punk, abbellito da una sensuale e indolente voce femminile. 

Nella mezz’ora a loro disposizione ci propongono tutto l’ep, più una manciata di inediti che si muovono sulla stessa falsariga e che fanno capire una volta per tutte di che pasta sono fatti. 

Dopo Be Forest e Brothers in Law, l’Italia ha un’altra realtà da guardare con rispetto e devozione. Per chi pensa che certe cose le possano fare solo i My Bloody Valentine… 

(Luca Franceschini) 

 

Coi successivi The Remington l’atmosfera cambia completamente. “Italian Market”, il loro album d’esordio, è un interessantissimo affresco di due decenni di rock angloamericano, dai Beatles a Bruce Springsteen, passando per i Kinks, gli Stones e Tom Petty. Canzoni leggere e irresistibili, proposte al pubblico con grande confidenza e fiducia nei propri mezzi. Fosse sera, staremmo tutti ballando come dei pazzi. Invece siamo ancora prima di cena, il sole se ne è andato ma fa ancora caldo. Questo per dire che il fatto che stiamo tutti seduti non significa che non apprezziamo. Anzi. 

Musica per nostalgici? Può anche darsi, ma suonata così, con questa irruenza e con questa freschezza di suoni, potrebbe anche andar bene per un ragazzino. “Carry on baby, our troubles are gone”, cantano in “Carry On” il pezzo che chiude il disco e la loro esibizione. La musica non farà dimenticare i problemi, ma di sicuro rende più bella la vita. Se vi piace il genere, comprate il loro disco. Punto. 

(Luca Franceschini) 

 

 

In un assolato sabato pomeriggio, i C+C=Maxigross fanno il loro ingresso sulla collinetta di Jack. Gruppo veneto, che propone un folk psichedelico che ti cattura e ti fa ballare. Sono un gruppo unito, le loro canzoni hanno stacchi precisi, che nascono da un gioco di sguardi e (probabilmente) anni di prove assieme. Sul palco è una festa, e tutti il pubblico balla, chi in piedi e chi, più compostamente (come i veri hipster che sono), sta fermo a tenere il tempo con il piede. A un certo punto annunciano la fine della festa, con l’ultima canzone. Attaccano con una potente ballata lisergica, che però fanno durare troppo. Ma poi si accorgono di avere tempo per un’ultima canzone, in italiano “perché mi piace essere italiano”, e tutti quanti la cantano con loro.

Sono stati una bella sorpresa, un concerto a livello altissimo e sempre capaci di mantenere vivo l’interesse e l’entusiasmo. Un po’ confusionale, ma le feste, in fin dei conti, sono così.

(Gianluca Porta) 

 

 

Sul Pertini è ora il turno dei Boxerin Club. Romani, un disco all’attivo, “Caribbean Club”, scaldano l’atmosfera con i loro spensierati ritmi esotici. Banjo, fiati, percussioni e chitarre si fondono insieme in una miscela sonora a cui è difficile resistere. Non è esattamente il mio genere e alla lunga risultano un po’ monotoni. Innegabile però che sappiano tenere il palco con maestria e che riscuotano un discreto successo nel poco spazio a loro disposizione. Certo, qui attendono tutti Lo Stato Sociale e gli Zen Circus, che suonano tutt’altra musica. Costituiscono comunque un piacevole intermezzo pur essendo un po’ fuori posto nel bill della giornata. Lo si vede quando, accortisi di avere finito troppo presto, rimangono sul palco il tempo di un altro brano e riescono a far ballare quasi tutti. Niente da dire, la portano a casa alla grande. 

(Luca Franceschini) 

 

 

Pian piano il Pertini si riempie, e i Mellow Mood, neanche troppo piano, iniziano a suonare. I gemelli del reggae italiano sono al Miami per la prima volta, per presentare il loro nuovo disco, “Twinz”. Attaccano subito, e il pubblico diventa un’onda unica che si muove su ritmi giamaicani. Basso martellante, con i due che incitano a ballare assieme a loro e la musica che avvolge tutto quanto. Ma se il pubblico non si scatena con loro, si vede che manca qualcosa e il concerto rischia di scadere nella banalità. Hanno una forte voglia di divertirsi e di divertire, ma non sono capaci di incantare solo con la musica, e si vede. Il concerto si trascina per un’ora, tra canzoni sempre uguali e anche il Pertini alla lunga si stanca. Con un’ultima esplosione spasmodica fanno ancora ballare, ma si vede che loro non sono più caldissimi. Nonostante la grande accoglienza, la loro esibizione è stata per lo più anonima, un puro momento di celebrazione del ballo e non della musica. Ma è quello che serve per preparare il gruppo successivo.

(Gianluca Porta) 

 

 

I torinesi Foxhound sono uno dei piatti forti della seconda giornata alla Collinetta. Il loro ultimo disco “In Primavera” (che, a dispetto del titolo, è cantato in inglese) è un caleidoscopio di suoni e colori in cui punk, funk, post rock e ritmi dub si mescolano a creare qualcosa di totalmente eclettico ed esplosivo. Non so se siano fan dei Talkin Heads, ma ad ascoltarli si direbbe proprio di sì. Prendono possesso dello stage e, la prima cosa che fanno, invitano tutti ad alzarsi in piedi. All’inizio l’indifferenza e lo scetticismo regnano sovrani ma, tempo un paio di brani, e la maggior parte ha già cambiato idea. 

Prestazione incendiaria senza se e senza ma, con una sezione ritmica che martella incessantemente e che non fa prigionieri. Finale con una improvvisazione strumentale fiume con la Collinetta scossa fin nelle fondamenta. Rispetto al disco (che pure è ottimo) siamo su un altro pianeta. Alla fine è un tripudio, con tanti ragazzi che si avvicinano per far loro i complimenti e per chiedere chi fossero, dato che il loro nome è ancora sconosciuto ai più. Senza timore di sbilanciarsi, una delle migliori esibizioni del festival, anche se ancora la domenica non è arrivata. 

(Luca Franceschini) 

 

Immediatamente dopo è la volta dei Did e il loro show è sicuramente più adatto a un dj set che a un concerto. Incantano a dovere con la loro dance raffinata ed un cantante che è un vero animale da palco. Nella mezz’ora a loro disposizione il loro album “Bad Boys” viene suonato quasi per intero e i vari episodi si confermano belli come li ricordavamo in studio. Meno dirompenti dei Foxhound ma ugualmente assassini. La riprova che in Italia le nuove generazioni sanno anche a mettersi a fare qualcosa di utile. 

(Luca Franceschini) 

 

 

Sul Pertini arriva Lo Stato Sociale, gruppo-fenomeno della musica indie italiana, per la loro seconda volta a questo festival. Accolti da un boato del pubblico, chiedono un favore: di tirare giù il Pertini. E con una scaletta per la maggior parte incentrata sul primo disco, ci riescono.  Partono con una velocissima versione di “Abbiamo vinto la guerra”, ed è già il delirio. Continuano con “una canzone sul lavorare per amore e l’amore per il lavoro”: “Io, te e Carlo Marx”. È la prima canzone dal loro disco nuovo e, anche se uscito da poco, tutti la ballano e la cantano. I cinque si dimenano sul palco, si guardano, scherzano e ridono, si capisce che sono una macchina ben oliata.

Subito dopo Lodo, con la sua caratteristica ironia, introduce “Sono così indie”. Non si tratta però della versione da album: nelle strofe Bebo racconta una storia diversa, dedicata a Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax, recentemente scomparso. La storia, è quella di cinque ragazzi che, lavorando in una piccola radio a Bologna, vanno a Cavriago a vedere dal vivo il gruppo emiliano, che ha da poco pubblicato il primo disco e di cui si parla un gran bene. “Ci accusano di imitare gli Offlaga, ebbene noi siamo fieri di imitare gli Offlaga Disco Pax”. Dopo qualche pezzo veloce e ballabilissimo, in cui tutti i presenti si scatenano, Lodo attacca con “Mi sono rotto il cazzo”. Canta il primo verso, ma sbaglia per l’emozione. Una risata, e poi si riparte, più carichi di prima.

Due brani dal nuovo album (“In due è amore, in tre è una festa, e il primo singolo “C’eravamo tanto sbagliati”) e poi escono, per problemi tecnici. Si ripresentano dieci secondo dopo declamando che volevano fare tre canzoni, ma che per ragioni che non capiscono ne faranno dopo una, che però varrà per tre. Attaccano con una versione esplosiva di “Cromosomi”, alla fine della quale Albu fa stage diving. E il pubblico tira davvero giù il Pertini.

È stato un live convincente, segno di un gruppo che sa divertirsi e sa divertire, mantenendo però sempre un livello altissimo.

(Gianluca Porta) 

 

 

Lasciare nel bel mezzo de Lo Stato Sociale è una scelta obbligata se dall’altra parte è di scena Il Triangolo. La band di Luino è da poco fuori col secondo disco “Un’America”, che ha confermato in pieno quanto fatto di buono col folgorante esordio “Tutte le canzoni”. Una proposta che recupera la freschezza e lo spirito dell’esperienza beat degli anni ’60, stagione che da noi ha prodotto più di un capolavoro. Il tutto rivisto alla luce dei nostri tempi, con suoni moderni e un tiro che dal vivo risulta micidiale. Sul palco (come su disco, del resto) sono solo in tre ma bastano e avanzano. Si parte con “La playa”, si prosegue con la devastante “Icaro”, con l’inno spensierato “Giurami” e non c’è proprio bisogno di esortare la gente a ballare. Sotto il palco in molti li conoscono e chi è qui per la prima volta ne rimane facilmente conquistato. Il tormentone “Battisti” scatena la bolgia come non mai e quando si arriva a “Un’America” tutti cantano il ritornello senza accorgersi che ormai siamo già alla fine. C’è tempo ancora per un brano, che ovviamente non poteva essere che “Le forbici”, opening track di un disco di debutto che questa sera avremmo voluto vedere più rappresentato. Ma tant’è, siamo ad un festival e di più non si poteva fare. Concerto breve ma intensissimo, il loro, l’ideale risposta a chi pensava che il recupero della nostra grande tradizione musicale potesse passare solo attraverso il cantautorato più intimista e malinconico. Non solo Non voglio che Clara, dunque (per quanto bravissimi, intendiamoci!): Il Triangolo è una band di assoluto livello e a chi li accusa di scarsa originalità possiamo solo rispondere: scrivetele voi canzoni così! 

(Luca Franceschini) 

 

 

Gli headliner del sabato al Pertini sono gli Zen Circus, tra le band più conosciute del panorama indie italiano. Gran parte degli spettatori solo venuti al Magnolia solo per loro, e dimostrano tutto il loro affetto accogliendoli con un boato clamoroso. È un concerto per la maggior parte celebrativo, ben lontano dalla spontaneità de Lo Stato Sociale, ma i fan più sfegatati non se ne accorgono e continuano a cantare. È tutto basato sulle mosse sceniche, sulla loro immagine costruita (stiamo pur sempre parlando di un gruppo che in qualche modo ha fatto della spocchiosità un proprio  marchio di fabbrica). Si perdono nell’auto celebrazione, nelle velleità di un act che si perde un po’ nella pretenziosità. Persino “Andate tutti affanculo” ha in parte perso la sua forza critica. Fanno del loro ritorno al Miami un evento totalizzante, ma alla fine risultano poco convincenti. Certo, la presenza scenica e l’esecuzione delle canzoni sono quelle di un gruppo che sa come fare un concerto, ma in fondo in fondo non sono in grado di essere davvero il piatto forte della serata.

 

 

Domenica 8 giugno 

Viene il momento dei There Will Be Blood. La polvere e il sudore si mischiano con il suond delle chitarre fulminanti di questo trio varesotto che meritatamente si guadagna il posto sul main stage del MIAMI (palco Pertini). Il nutrito gruppo di fan (?) e di curiosi vengono rapiti dal demone del blues elettrico: echi di R.L. Burnside, il Diddley Bow e Son House fanno il resto. Il clapping (stomp) finale riporta la calma e il sole ritorna a picchiare. 

(Raffaele Concollato) 

 

La nuova versione di Nicolò Carnesi si discosta dalla precedente per l’attitudine elettrica ed elettronica che è riuscito finalmente a far sbocciare all’interno dei suoi brani. L’ultimo lavoro, “Ho una galassia nell’armadio”, la fa da padrone nel breve set sul palco Pertini, non disdegnando la rivisitazione dei classici del primo lavoro come “Voglio tornare Zanzibar” e l’ironica “Levati”. Tirato e compatto il set è filato diritto per la sua strada, il numeroso pubblico entusiasta ha confermato che l’artista palermitano dal vivo ha raggiunto un livello davvero notevole e non solo musicalmente.

(Raffaele Concollato) 

 

La giornata di domenica, causa problemi vari, per me inizia solamente con le Lilies on Mars, che si esibiscono alla Collinetta attorno all’ora di cena. Duo tutto al femminile, presentano le canzoni dell’ultimo “Dot to Dot”, terzo episodio della loro discografia, splendido lavoro di dream pop da manuale che la dimensione live valorizza in tutte le sue qualità. Sul palco i sintetizzatori la fanno da padrone, anche se ogni tanto compaiono basso e chitarra. Le due sono belle, brave e particolarmente magnetiche, evocano atmosfere eteree e sognanti, velate di malinconia leggera, mai troppo orecchiabili ma assolutamente godibili. Nel 2007 Franco Battiato le aveva volute fortemente nel suo “Il vuoto” e adesso capiamo perché. Le due ragazze ci sanno fare e nella mezz’ora a loro concessa mettono in piedi uno show da manuale. Sarebbe bello rivederle da headliner, prima o poi. Da anni vivono a Londra e certo la loro proposta risulta molto poco adatta ai gusti dell’ascoltatore medio italiano. Sperare, ad ogni modo, non costa nulla… 

(Luca Franceschini) 

 

Si rimane alla Collinetta perché a ruota ci sono i Green Like July. Il gruppo di Alessandria è uno di quelli che all’estero potrebbero invidiarci ed effettivamente al di fuori dei nostri confini stanno riscuotendo un discreto successo. Avevo seguito con particolare interesse l’uscita di “Build a fire”, il loro terzo lavoro, ma, per un motivo o per l’altro, non ero mai riuscito a scriverne. Adesso, in qualche modo, ho l’occasione per rimediare. Tra Beatles, Kinks e T.Rex, nella venerazione dei numi tutelari George Harrison e Marc Bolan, il cantante, chitarrista e songwriter principale Andrea Poggio ha sognato l’Inghilterra e poi è andato a registrare due album nel Nebraska, potendo guardare in faccia chi questa musica la fa di mestiere. 

Quando salgono sul palco, spazzano via tre quarti delle band di questi giorni, e non stiamo parlando di gente che ha suonato male. Partenza in sordina con una versione rallentata e riarrangiata di “A Better Man”, dal precedente “Four Legged Fortune”. Suoni nitidi e puliti, pieni e avvolgenti, a rivestire brani di un pop rock solare come difficilmente se ne trovano da noi. “Oltre ad essere tutti bellissimi, se pur per ragioni diverse – scherza Andrea fingendo un tono serioso e pedante – scriviamo anche pezzi della madonna, come questo”. E quando parte “Jackson”, è oggettivamente impossibile dargli torto. Poi spazio ai brani dell’ultimo disco: “Agatha of Sicily”, “Tonight’s the Night”, la cadenzata “Borrowed Time”, da cui è stato appena estratto un video, “An Ordinary Friend” e ovviamente l’opener “Moving to the City”. E a questo punto, invitati da Poggio ma senza farsi pregare più di tanto, la maggior parte dei presenti di alza in piedi a ballare. Si chiude con una magistrale esecuzione della vecchia   “A Perfect Match”, che fa scorrere più di un brivido lungo la schiena. Nulla di più da dire. Un gruppo eccezionale che dovrebbe essere ascoltato molto di più. 

(Luca Franceschini) 

 

Abbandoniamo a malincuore la Collinetta perdendo i Fast Animals and Slow Kids ma i Marta sui Tubi, che si stanno nel frattempo esibendo sul palco principale, meritano almeno una menzione. Pubblico delle grandi occasioni per loro, che dopo Sanremo hanno aumentato la visibilità se pur a discapito di una proposta artistica che è andata scemando sempre di più come qualità. Il loro show è potente e coinvolgente, suonano benissimo (seppur non più così virtuosi e progressivi come in passato), hanno un grande impatto e i presenti paiono divertirsi un mondo. Poca roba vecchia (“L’unica cosa” risulta sempre devastante) e una selezione di brani più recenti, tra cui l’inedita “A modo mio”, che farà parte del Best of in uscita a breve.

Nel finale, viene invitato l’insieme di fiati torinese dei Banda Cadabra, ad accompagnare “Cromatica”, il pezzo scritto insieme a Lucio Dalla. Un bel concerto, anche se rimane l’impressione che i giorni migliori siano ormai andati. 

(Luca Franceschini) 

 

Come era lecito aspettarsi, per Le Luci della Centrale Elettrica c’è il pienone. Vasco Brondi è probabilmente il musicista italiano che più ha diviso il pubblico indie: o lo ami o lo odi, da noi succede sempre così, quando si ottiene un successo rapido e travolgente come il suo. Personalmente, riesco in qualche modo a stare nel mezzo: ho trovato bellissimi i suoi primi due dischi, impreziositi da una scrittura folgorante ma anche un filino pretenziosa ed autocompiaciuta. L’ultimo “Costellazioni” ha voluto esplorare territori nuovi, musicalmente parlando. Si tratta di un lavoro molto più vario ma anche molto più dispersivo, dove non tutte le idee sono buone come dovrebbero. 

Anche dal vivo, c’è stato un cambio radicale: non c’è più Giorgio Canali (che lo ha lanciato e che gli ha prodotto i primi due album) a dipingere paesaggi sonori con la sua chitarra elettrica. Adesso c’è una band completa, fatta di drum machine ed effettistica varia, una chitarra e un violoncello (della bravissima Daniela Savoldi, che ha suonato anche sull’ultimo di Nada). Lo stesso Brondi ormai suona poco la chitarra e il più delle volte canta solamente, divertendosi a farsi tutto il palco di corsa e a ballare freneticamente. Un’immagine diversa da quella del cantore delle spiagge deturpate e delle periferie industriali che i primi due dischi ci avevano trasmesso. Sul palco tutto funziona a meraviglia, i pezzi suonano molto più “pieni” e la componente elettronica contribuisce davvero molto da questo punto di vista. A uscirne valorizzati sono ovviamente i brani vecchi: a parte “Cara catastrofe”, suonata in versione vicina all’originale, le nuove rese di “Piromani”, “Per combattere l’acne” e soprattutto “Per respingerti in mare” sono stati indubbiamente i momenti più emozionanti del concerto. 

Poi ovviamente spazio ai brani del nuovo disco: se “Le ragazze stanno bene” o “Un bar sulla via lattea” sono forse quelle più in linea con i vecchi lavori, è evidente come le sfuriate di “Firmamento” o “Ti vendi bene”, e le rockeggianti “Questo scontro tranquillo” (in cui Brondi sembra guardare dalle parti di Rino Gaetano) e la conclusiva “I destini generali”, siano gli episodi che oggi forse rappresentano al meglio il progetto de Le Luci. Un concerto quindi più coinvolgente di quanto era lecito aspettarsi, impreziosito da un’ottima esecuzione di “Emilia Paranoica” dei CCCP, un brano che, come dice lo stesso Brondi, “è un classico ancora vivo, che continua a scalciare”. 

I detrattori possono continuare a dirne male quanto vogliono ma Vasco Brondi è sicuramente qui per restare. 

(Luca Franceschini) 

 

Si chiude così il sipario anche su questa edizione del Miami, quella del decimo anniversario. Sono stati tre giorni di grande musica che, nonostante qualche assenza importante, hanno messo in chiaro nuovamente che la nostra scena musicale non è nient’affatto inferiore a quella estera e che, a dispetto di quanto si dice sulla pigrizia intellettuale delle giovani generazioni, ci sono un sacco di ragazzi che decidono di iniziare a suonare ispirati da artisti lontanissimi da quelli che ci si aspetterebbe rientrare nei loro ascolti e che mettono in piedi progetti da far invidia ai loro colleghi stranieri. Sarà anche una cosa di nicchia ma una possibile via di riscatto nazionale potrebbe anche passare da qui…