I Black Keys sono un duo di ruspante rock’n’roll come la migliore tradizione statunitense insegna, formatosi nel 2001 ad Akron, Ohio. Daniel Auerbach, voce e chitarra del gruppo, porta in dote in questo particolare matrimonio musicale le vibrazioni elettriche del blues del Delta derivanti dagli ascolti di Muddy Waters e Robert Johnson. Il suo congiunto virtuale Patrick Carney, batterista, è stato invece influenzato dalla musica hip hop e dalla new wave nord-americana, con una particolare ammirazione per i Devo. Nasce così un suono sporco, grasso e gracchiante figlio di forti di richiami al passato ma decisamente proiettato al futuro, una attitudine che li inserisce in un solco battuto anche da altre band come i White Stripes e i John Spencer Blues Explosion.
Turn Blue è la loro ottava fatica, la quarta che si avvale della collaborazione di Danger Mouse. L’eclettico produttore, che spazia dagli Gnarls Barkley a Norah Jones passando per i Gorillaz senza nemmeno scomporsi, ha dato una svolta decisiva al sound di Pat e Dan, fino a diventare quasi un terzo elemento della formazione: suonando basso, tastiere e pianoforte in molti pezzi e scegliendo campioni decisivi per la riuscita dei brani. Brothers, del 2010, è stato il primo vero successo internazionale della band bissato poi da El Camino, del 2013. Turn Blue, invece, crea una frattura con gli album precedenti e, senza esagerare nella sperimentazione, vira definitivamente verso atmosfere maggiormente elettroniche compiendo così la rivoluzione copernicana della band voluta dal bizzarro musicista conosciuto all’anagrafe come Brian Joseph Burton.
Proiettati oramai nel firmamento delle star del pop-rock mondiale i Black Keys sono destinati a confermare il loro successo internazionale, nonostante la qualità generale di quest’ultimo lavoro sia nettamente inferiore a quella dei precedenti. Non che Turn Blue sia un brutto album, tutt’altro, è ricco di canzoni ballabili e orecchiabili, sembra però essersi persa la vena creativa che rendeva eccezionali le produzioni precedenti.
Si parte con la desertica, psichedelica e morriconiana ‘Weight Of Love’, questa ballata di 6 minuti ci racconta della confusione esistenziale che attraversa il protagonist: “Dance all night cause people, they don’t wanna be lonely/Never wanna be lonely/They don’t wanna be an only – one/You had a thing no one could ever be sure of/Never ever had a pure love/And never no cure from” che fa il paio con la title-track Turn Blue, rallentata e malinconica: “In the dead of the night I start to lose control/But I still carry the weight like I’ve always done before/It gets so heavy at times but what more can I do/I got to stay on track just like pops told me to”.
La svolta di cui si parla non è solo quella musicale ma si fa riferimento anche alla maggiore tristezza presente nella poetica del duo a causa dell’imminente divorizio avvenuto tra Dan e sua moglie. “In Time” e “Fever”, riportano ai vecchi Black Keys con riff contagiosi, falsetto e ritmi incalzanti, nonostante il sintetizzatore plasmi molto il suono del primo singolo estratto. Si continua poi con il soul-rock di “Year in Review” che contiene un campione musicale niente di meno che del grandissimo Nico Fidenco (qualcuno forse si ricorderà ‘Con Te Sulla Spiaggia’).
‘Bullet In The Brain’ si fonda sul dialogo tra gli accordi di una chitarra acustica e le grida lancinanti lanciate da una chitarra elettrica, mentre la schizofrenica ‘It’s Up To You Now’ fa rimpiangere i bei tempi andati del duo. ‘Waiting On Words’ ha un gusto più marcatamente pop e zuccheroso dell’aroma generale, sentimento che viene subito seppellito dalla batteria New Wave e dal sint ossessivo di ‘Lovers’. Il tutto si conclude con il garage rock ‘Gotta Get Away’, ascoltandola si spera che la malinconia e il goffo tentativo di evolversi vengano definitivamente cacciati via e i Black Keys tornino a fare ciò che sanno fare meglio: farci agitare fianchi e teste con un po’ di sano e robusto rock n roll.
(Emanuele Lanosa)