Nel 2006, l’ultimo anno in cui i Pearl Jam fecero un consistente passaggio dalle nostre parti, suonarono cinque date in cinque città diverse e complessivamente totalizzarono un pubblico inferiore alla capienza dello stadio di San Siro. Otto anni dopo, all’annuncio che uno dei due concerti nel nostro paese sarebbe stato tenuto proprio in questa celebre venue, i biglietti furono polverizzati in poche ore. In questo ha sicuramente giocato la visibilità che, grazie alla colonna sonora del film “Into the Wild”, Eddie Vedder ha guadagnato anche dalle nostre parti. 



Ma ha giocato molto di più (ne sono convinto) lo stadio di San Siro. Ce ne si può rendere conto abbastanza facilmente osservando i propri vicini di posto: al di fuori dei pezzi straconosciuti, mutismo assoluto e partecipazione nulla, con molti che davvero sembravano essere lì per caso. La mia non vuole essere assolutamente una critica verso un certo tipo di pubblico (ognuno va dove vuole e vive uno spettacolo come crede) ma semplicemente una considerazione oggettiva: San Siro ha fascino, un concerto nella sua cornice ha sempre qualcosa di spettacolare, di magico e tantissimi ci vanno più per l’atmosfera che per chi effettivamente ci suona dentro. Non serve essere fan accaniti dei Pearl Jam, per esserci questa sera: basta essere minimamente appassionati di musica rock, conoscere il nome, avere in testa quattro o cinque canzoni. Il risultato, complice anche la recente e distruttiva abitudine di differenziare i prezzi a seconda del settore, è quello che si è visto e che è ormai una triste abitudine quando si parla di concerti negli stadi: i die hard fan sul prato, i bendisposti e i semplici curiosi disseminati sugli anelli. Questo non ha penalizzato il concerto (ci mancherebbe) ma sicuramente non ha valorizzato in pieno certi momenti. 



Ad ogni modo, alle 18 c’è Italia-Costarica e ovviamente l’organizzazione ne ha predisposto la visione su maxi schermo. C’è dunque già un bel po’ di gente quando, a squadre schierate per gli inni nazionali, Eddie Vedder fa il suo ingresso sul palco indossando una maglia dell’Italia, con tanto di numero 10 e la scritta “Eddie” dietro la schiena. Saluta, imbraccia un’acustica e distrugge tutti con una devastante versione di “Porch”. Poi ci saluta con un “In bocca al lupo!” e se ne va. Meglio di così non si poteva iniziare. 



Stendendo un pietoso velo sull’esito del match (anche perché su questo ci sono i colleghi dello sport), saltiamo direttamente a un quarto alle nove quando, con lo stadio pieno in ogni ordine di posti, i cinque, più l’organista aggiunto “Boom” Gaspar, salgono sul palco. 

Era dal 2010 che non li vedevo e solo in quel momento realizzo quanto mi sono mancati. L’attacco è quello di “Release”, vale a dire una delle più belle opening song del loro repertorio, una di quelle che da sola sa già indirizzare uno show sui binari giusti. Brividi scorrono lungo la schiena e succede che mi emoziono anch’io, che i concerti in questo stadio non li ho mai considerati di più rispetto agli altri. 

Il secondo pezzo è “Nothingman”, un classico ma ormai eseguito poco dal vivo: è evidente che siamo fortunati. La voce di Eddie non è al meglio (ormai sono anni che è così) ma non ha perso il suo timbro inconfondibile; il pubblico canta e si sgola per cui, con un po’ di mestiere, certe sfasatura vengono mascherate a dovere. 

L’inizio è all’insegna delle ballate: in successione arrivano anche la nuova “Sirens” (che dal vivo migliora un po’, pur rimanendo bruttina) e, incredibilmente, “Black” che, normalmente, quando arriva, arriva alla fine. Ma d’altronde questa band ci ha da sempre abituati così: salgono sul palco, senza luci o scenografie di sorta (in questo tour hanno qualche orpello in più, ma giusto la copertina del disco sullo sfondo e qualche globo al neon che oscilla qua e là), attaccano la spina e suonano quel che gli pare, senza particolare criterio, spesso e volentieri cambiando in corsa. Quasi ogni pezzo è diverso da una sera all’altra, chi ne sente uno in una città sa che molto probabilmente che non lo faranno la sera dopo. È questo che rende ogni loro show speciale ed è per questo che, in questo senso, è avvantaggiato chi li conosce meglio: perché a ogni brano è un po’ come aprire un pacco di Natale. Con anche il rischio della delusione, ovvio. Ma l’adrenalina della sorpresa rimane impagabile. 

Questa sera, comunque, siamo fortunati: la band è in palla e la setlist è spettacolare: ognuno ha le sue preferenze ma bisognerebbe avere dei seri problemi per rimanere delusi. 

Dopo un rapido saluto in italiano, con un Eddie Vedder visibilmente stupito dall’entusiasmo e dall’affluenza del pubblico, si parte a picchiare duro: via con le mazzate di “Go”, “Do the Evolution”  e l’immancabile “Corduroy”, col suo crescendo sempre irresistibile. 

“Lighting Bolt” è uscito ormai da diversi mesi, è stato presentato dal vivo in Australia e in America, ma qui da noi non era ancora arrivato. Normale dunque che alcuni dei suoi episodi siano tuttora ben radicati all’interno degli show europei, anche se non sono poi così tanti. Meglio così, perché le cartucce sparate stasera (oltre a “Sirens” arrivano in rapida successione anche la punkeggiante “Mind your Manners”, la più articolata e melodica “Swallowed Whole” e la stessa “Lightining Bolt”; le cose migliori, in fin dei conti) si rivelano parecchie spanne sotto al resto del materiale. Anche in paragone ai due dischi precedenti, “Pearl Jam” e “Backspacer”, che qui a Milano vengono completamente trascurati. 

Scena divertente quando Eddie si dimentica le parole di “Given to Fly” e si dà dello stronzo in perfetto italiano, anche se forse bisognerebbe dare la colpa alla bottiglia di vino che fa capolino spesso e volentieri tra le sue mani. 

Entusiasmo a mille, almeno tra i fan più accaniti, per alcune chicche straordinarie che davvero raramente si possono sentire: “Pilate” ma soprattutto “Who you Are”, uno dei più bei pezzi di “No Code” che in Europa non si sentiva proprio dal tour di quel disco, nel 1996. Quando subito dopo parte “Sad”, outtake di “Binaural” che non avrebbe sfigurato nella scaletta del disco, per quanto mi riguarda io posso anche andare a casa. È passata poco più di un’ora ma per intensità sprigionata, se fosse finita qui non ci sarebbe stato nulla da recriminare. 

Invece si va avanti: “Evenflow” è un momento fisso dei loro show ed è anche uno degli spazi maggiori che Mike McCready ha per prodursi nei suoi assoli funambolici. È sempre divertente osservare come i due chitarristi della band di Seattle si compenetrino alla perfezione, pur essendo distanti anni luce per atteggiamento e modo di vivere il concerto: più compassato e professorale Stone Gossard, che si muove poco ed è sempre molto concentrato; decisamente istrionico Mike, che salta, corre per il palco, incita il pubblico e trova nel bassista Jeff Ament, anche lui matto come un cavallo, il suo partner migliore. 

C’è anche spazio per una breve incursione nel repertorio solista di Vedder, con una “Setting Forth” full band dedicata ad un giovane fan della band, al suo primo concerto. 

Il roccioso mid tempo di “Not for you” è un episodio stracollaudato e sempre gradito mentre la potente cavalcata di “Reaviewmirror” chiude il set principale con l’affascinante aggiunta di una  coda psichedelica in cui tutta la band scioglie le briglie all’improvvisazione. 

Tempo due minuti ed eccoli di ritorno per i bis. Che sono “bis” per modo di dire, visto che si andrà avanti per più di un’ora. Compaiono sgabelli, chitarre acustiche e un contrabbasso: è evidente che dopo le sfuriate elettriche c’è voglia di tirare il fiato. Non molto azzeccata la prima scelta, perché “Yellow Moon”, ultimo estratto da “Lightining Bolt” per questa sera, si conferma davvero noiosa.

Meglio le successive: la romantica “Just Breathe” viene dedicata alla moglie di Eddie (presente tra il pubblico e puntualmente inquadrata dai megaschermi), incontrata proprio in Italia quattordici anni prima, come lui stesso ha spiegato in italiano. C’era stata una scena simile nel 2006, quando sempre a Milano le aveva regalato una meravigliosa “Picture in a Frame” di Tom Waits. 

Poi ancora, una splendida versione di “Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town”, arricchita dal consueto sing along del pubblico. La meravigliosa “Thin Air” la vivo invece come un regalo personale, visto che “Binaural” è uno dei miei dischi preferiti e che dal vivo sono diversi anni che viene trascurato. 

“Daughter” è un altro grande classico molto amato dai fan ma questa sera la sua seconda parte sfocia immediatamente in “W.M.A”, dopodiché la band si lancia in una meravigliosa “It’s Ok” dei Dead Moon ed è magia pura, uno dei momenti più alti del concerto.   

Fine della parte acustica, dentro di nuovo con l’elettrica. “Jeremy” è tra i più emozionanti dei vecchi brani e questa sera è ancora più bella grazie al pubblico che spinge tantissimo sui cori e crea davvero un’atmosfera unica. Uno di quei momenti in cui effettivamente San Siro fa la differenza, nonostante i tanti che proprio non sapevano neppure cosa stesse avvenendo. Poi, dopo una “Better Man” scontata ma di grande impatto, ecco che, come se avessero iniziato a suonare dieci minuti prima, decidono di spararci in faccia, in rapida successione, autentiche bordate sonore come “Spin the Black Circle”, “Lukin” e una meravigliosa “Porch” in versione full band, impreziosita da una lunga coda strumentale in cui ancora una volta è McCready a salire sugli scudi. 

Potrebbe anche finire qui, ma non finisce qui: i sei rientrano di nuovo e Vedder fa puntare i fari sul pubblico per poter godere ampiamente dello spettacolare colpo d’occhio che gli si para davanti. “Nel mondo ci sono tanti problemi – dice, questa volta in inglese – ma quando vi vedo tutti qui, uniti dalla stessa cosa, penso che insieme possiamo farcela, possiamo vincere.” Retorico, utopistico, scontato: la vita non può essere una cosa così semplice. Eppure, di fronte a questo stadio pieno e al concerto pazzesco che questi signori hanno tirato fuori, un po’ ti viene anche da crederlo. 

Il riff di “Alive” provoca un boato pazzesco: la stavano aspettando tutti, probabilmente (scusate la cattiveria) una buona metà della gente conosceva solo questa. Io personalmente faccio parte del partito di quelli che non la vorrebbero per forza sentire tutte le sere. Innegabile però che abbia fatto la loro storia (oltre che quella del rock degli anni ’90) e che in versione live faccia sempre la sua porca figura. 

C’è ancora spazio per l’immortale “Rockin’ in the Free World”, il brano che segnò la rinascita di Neil Young a inizio anni ’90 ma che ormai sembra essere quasi un brano dei Pearl Jam. Il figlio adolescente del batterista Matt Cameron fa capolino imbracciando una chitarra e strimpella qualche accordo con sguardo chiaramente impaurito. Luci accese, gente in piedi, ringraziamenti a profusione, atmosfera da gran finale. Ecco allora “Yellow Ledbetter”, la più celebre delle outtake del periodo “Ten”, quella su cui da sempre Eddie improvvisa il testo e che nove volte su dieci costituisce il saluto finale della band ai propri fan. 

Diciamoci la verità: non è affatto detto che uno stadio sia il posto migliore per godere di un concerto rock. Al Forum di Assago, nel 2006, si vide tutt’altra atmosfera, tutt’altro show. Gli stadi, per natura, sono dispersivi e attirano più curiosi che veri appassionati, l’ho detto e ridetto in ogni lingua. Aggiungiamo che, per tutta la storia che hanno alle spalle e per il modo spartano con cui concepiscono la loro musica, i Pearl Jam non sono mai stati e mai saranno un gruppo da stadio. Eppure questo di San Siro è stato un gran concerto. Non il migliore che abbia mai visto da loro  (è sicuramente anche colpa dei suoni come sempre pessimi della venue) ma certamente un grande spettacolo. Una band che, per quanto su disco abbia probabilmente ancora ben poco da dire, dal vivo rimane tra le più grandi del pianeta. Resta da vedere se a Trieste sapranno fare di meglio…