Turchi è una rock/blues band del Nord Carolina che propone un ottimo sound adrenalinico e prorompente. Negli Stati Uniti, tra la miriade di band emergenti, sono una goccia nell’oceano mentre in Europa sono probabilmente del tutto sconosciuti. Con una sola eccezione. Nel nostro Paese i Turchi hanno avuto l’occasione di farsi notare in particolare grazie all’ottimo album dal vivo “Live in Lafayette” che, con il suo ritmo forsennato e slide incendiario, non è sfuggito all’orecchio attento delle riviste musicali specializzate come Il Buscadero e Il Blues.



Il leader della band è il ventitreenne Reed Turchi, un biondone dai capelli lunghi e dalla barba curata nato ad Asheville, luogo dove ogni anno Warren Haynes con un cast d’eccezione presenta il suo Christmas Jam. Dalle parti di Cantù, località ben nota agli appassionati di basket tanto da essere ribattezzata da alcuni Cantuky, si è esibito al celebre locale All’Una e Trentacinque Circa e considerata la sua altezza, se non fosse stato visto aggirarsi con una chitarra al collo, lo si sarebbe potuto tranquillamente confondere per un cestista del team locale. 
Ho avuto l’occasione di incontrare e di intervistare Reed per saperne di più sulla sua musica.



“La band si è formata a Chapel Hill, North Carolina dove al tempo noi tutti studiavamo. Il nome Turchi non è stato una mia scelta, ovviamente ho accettato ma lo ha curiosamente voluto il batterista Cameron Weeks. La formazione si completa con Andrew Hamlet, che non è il bassista originario ma suona con noi da ormai  un anno e mezzo e ha contribuito alla realizzazione degli ultimi tre album. Siamo pertanto un trio ma in ogni album abbiamo degli ospiti, per esempio nell’ultimo “Can’t Bury your past” ci siamo avvalsi della collaborazione di Anthony Farrell alle tastiere e di Art Edmaiston al sassofono. In Italia siamo invece un duo, per contenere le spese sono venuto solo io dagli States, ma in tournée sono stato validamente accompagnato dal batterista della band romana Dead Shrimp, Gianluca Giannasso. In patria poi talvolta succede che mi esibisca da solo, in tal caso gli show assumono una dimensione più blues e meno rock, nel complesso più tranquillo”.
Sono incuriosito dal nome Kudzu Boogie che viene puntualmente accostato alla loro musica. Per descrivere questo genere vengono utilizzate le espressioni più fantasiose, si parla di un mix di Hill country fuzz, di trance blues, di trascendental deep-south trance e di swampy hoodoo fonk… “Yeah, la definizione è  perfetta… la nostra musica ha origini nel North Mississippi Blues, molte canzoni sono costruite su un accordo solo, si passa da un groove all’altro, molte slide guitar ma sempre con lo stesso accordo. Per un po’ abbiamo definito il nostro suono come slide guitar boogie perché abbiamo voluto escludere la parola blues che in America rimanda prevalentemente a quello di Chicago. Successivamente un critico ha descritto il nostro sound Kudzu Fuzz per via del suono distorto della chitarra che, combinato al ritmo boogie, forma il Kudzu Boogie che è forse la sintesi migliore! In un certo senso siamo gli unici a presentare questo tipo di suono e ne siamo orgogliosi. Il Kudzu è una pianta selvatica rampicante giapponese che negli anni trenta è stata importata negli Stati Uniti per combattere l’erosione del suolo e per far fronte quindi alla grande depressione. Cresce di un Piede (circa 30 cm) ogni giorno tanto da circondare cabine telefoniche e case. Ecco, le nostre radici sono nel blues, rielaboriamo il suono in maniera unica e ci prefiggiamo di diffondere la nostra musica come se fosse un Kudzu”.



“The Mission is to bring you the best kudzu boogie” è anche l’obiettivo della Devil Down Records, l’etichetta discografica che Reed ha creato e che dirige dal 2010:  “Purtroppo non riesco a gestirla a tempo pieno ma è la label che ho utilizzato per produrre i nostri album e quelli di alcuni artisti Hill Country Bues. Peraltro un paio di anni fa ho lavorato al North Mississippi Hill Country Picnic Music Festival e mi sono occupato delle registrazioni di un live dei North Mississippi Allstars il che mi ha consentito di conoscere Luther Dickinson. Al tempo stavamo lavorando al primo album Road Ends in Water e Luther si è reso disponibile a contribuire alla realizzazione di alcune canzoni. È stato incredibile”.

 

Il Sito internet dell’etichetta distribuisce anche Oil Box Guitar e Cigar Box Guitar, piccole chitarre a quattro corde fatte a mano con le latte dell’olio o con le scatole di sigari. Reed le utilizza per i suoi  Show: “Ho due amici in West Virginia che hanno iniziato a produrle per passione ed ora sono molto popolari. In sostanza le suono fino a quando non si rompono, poi gliele riporto indietro e me ne danno di nuove. Quando le uso dal vivo è sempre la parte più  sperimentale della performance ed è divertente perché sono del tutto imprevedibili, a volte funzionano altre volte no. Il suono è forte, amplificato ma il problema è che non è possibile controllare il volume il che crea sempre un po’ di pathos durante l’esibizione. Per esempio si può riconoscere bene il suono, più profondo rispetto a quello di una chitarra, in Don’t Let the Devil Ride”.

L’ultimo album della band è stato pubblicato nell’aprile di quest’anno e si chiama Can’t Bury your past:“E’ decisamente il nostro album migliore. Le canzoni sono energiche e selvagge e sono state registrate in presa diretta in uno studio di Nashville con le sole sovraincisioni del sax e della tastiera. Il sound è grezzo e diretto,  di fatto abbiamo catturato  tutta l’energia della performance di Live in Lafayette senza che le canzoni venissero eccessivamente allungate e distorte. È una musica da ascoltare in macchina, ho trascorso tanto tempo on the road, è da lì che nasce la mia musica”. 

I testi delle canzoni sono molto personali e raccontano di situazioni legate alle miglia macinate in viaggio. Gli chiedo di alcune delle sue canzoni che più mi hanno colpito come When you’re lost it’s all a sign: “Quando sei esausto, tocchi il fondo,  tutto può servire per ripartire, My time ain’t now, quando passi da un guaio all’altro, magari hai il modo di uscirne ma non è mai il momento giusto; Of Brother’s Blood: riguarda un amico morto in un incidente in moto che mi ha fatto rendere conto che ee all gotta die someday; abbiamo davvero tutti poco tempo in questa vita, le persone passano e tu devi continuare a vivere nonostante si maturi la consapevolezza di quella che sarà la tua fine e ancora Take me back Home: tratto la frustrazione di non riuscire a tornare a casa da un lungo viaggio ma anche dei festeggiamenti una volta che si è concluso”.

 

Infine gli chiedo di questo legame particolare con l’Italia, da pochi giorni si è conclusa la seconda tournée di una decina di giorni dopo la prima venuta di un paio di settimane nel novembre scorso: “Le miei origini sono italiane, il mio bisnonno era siciliano. Ma questo non c’entra nulla. La buona pubblicità da parte della carta stampata ha certamente contribuito, ho iniziato a vendere un po’ di copie anche qua. Successivamente è stato merito di Gianluca Diana della Mojo Station, associazione romana per la promozione della musica blues, che oltre ad avere un programma radiofonico ogni anno organizza un festival blues nella Capitale. Il contatto è avvenuto via Facebook, probabilmente lui conosceva già la mia etichetta e si è quindi occupato dell’organizzazione delle date del tour. Gianluca made it happen! Non sarei qua fisicamente se non fosse stato per lui”.

 

Rubando un’espressione di Fabio Treves, uno che di Blues se ne intende, si potrebbe augurare “Kudzu Boogie alle masse”!