Secondo il chitarrista Sergio Pizzorno, il quinto disco dei Kasabian, avrebbe “lo spirito di un rave delle Midlands suonato da un gruppo rock’n’roll del 1968. Penso che con questo disco sto creando un nuovo linguaggio musicale. Mettere insieme musica elettronica, hip-hop e rock di fine anni Sessanta, mi dà la sensazione di un primo passo dentro qualcosa… non suona come nient’altro”. 



Non me ne voglia il collega Stefano Bartolotta di Indie-Rock.it, che per primo ha scovato questa citazione, ma mi sono sentito di “rubargliela” perché fotografa in pieno quello che la band di Leicester ha inteso fare con questo “48:13”. 

Il titolo, per quanti se lo fossero chiesti, non è nient’altro che il minutaggio complessivo delle 13 tracce che compongono il lavoro. Una scelta curiosa, probabilmente unica nella storia della musica rock ma, almeno a mio modesto parere, non particolarmente significativa. Abbastanza brutta è anche la copertina, rosa shocking e dal vago retrogusto psichedelico, realizzata dal celebre artista Aithor Troup, che ha anche firmato il primo video estratto, quello del singolo “Eez-Eh”. 



Che dire allora di questo album? Si potrebbe liquidarlo in due secondi definendolo “commerciale” e “prevedibile”; due aggettivi che, detti così, vogliono dire poco ma che un loro senso ce l’hanno, se si guarda bene. 

I Kasabian sono uno di quei gruppi nati dal calderone di quella seconda ondata Brit pop che ha invaso le classifiche ad inizio anni 2000, quando l’eco dei vari Suede, Oasis, Verve, Blur si era spento o non era comunque più all’apice dell’intensità. Assieme a The Strokes, Franz Ferdinand, Arctic Monkeys, giusto per citare i nomi più conosciuti, i Kasabian hanno incarnato il solito modo sfrontato e arrogante di suonare rock in Gran Bretagna, ma lo hanno leggermente aggiornato alle nuove generazioni. Musica “vecchia” per quanto riguarda le radici a cui andava ad aggrapparsi, “nuova” in relazione ai suoni, alla produzione, all’attitudine. 



Musica fortemente indirizzata alle classifiche, in una spasmodica ricerca di nuove generazioni da accalappiare e conquistare. 

Musica curata, quasi plastificata, per ragazzi alla ricerca di emozioni forti, col bisogno urgente di essere definiti “alternativi”, senza però la voglia e la passione di andare a spulciare nelle collezioni dei padri e dei fratelli maggiori, per scoprire qualcosa che valga veramente la pena di essere ascoltata. Musica da MTV, insomma. Musica di un’industria discografica che ti dice cosa ascoltare per essere considerato sufficientemente al passo coi tempi. Sono magari poi quelli stessi fan che danno delle sprovvedute alle loro ragazze perché sbavano dietro a Chris Martin, senza rendersi conto che sono tutti prodotti della stessa macchina da soldi. 

Giudizio troppo duro? Probabilmente sì, anche perché, è giusto dirlo, di cose buone le band sopracitate ne hanno fatte eccome. Ma è inutile chiedersi di chi sia la colpa: se dell’industria avida che plasma a sua immagine e somiglianza i gruppi fino al punto da annullarne la sostanza, o dei gruppi stessi che vendono l’anima sull’altare della fama e del dollaro facile. Una volta che ci finisci dentro, consapevole o meno, è impossibile uscirne. 

I Kasabian, da un certo punto di vista, hanno fatto la stessa fine. Il loro disco d’esordio aveva fatto irruzione sulla scena musicale con la forza di un uragano, per la disinvoltura con cui mischiava dance, pop, e hip pop in un’unica mistura irresistibile. Una sorta di festa selvaggia in cui Primal Scream e Stone Roses si incontravano con Beatles e Pink Floyd. Un sound che sembrava provenire direttamente dalla Mad-Chester dei tempi che furono e che invece, a sorpresa di molti, proveniva dalla molto più prosaica Leicester e stava tutta nelle mani di un chitarrista genovese trasferito in Inghilterra da bambino a seguito del padre. 

I successivi “Empire” e soprattutto “West Ryder Pauper Lunatic Asylum”, confermarono questo stato di grazia e proiettarono meritatamente questa band ai vertici delle classifiche. Meritatamente, appunto. Perché i Kasabian, ruffiani e anche un po’ arroganti lo sono sempre stati, ma finché hanno suonato ottima musica nessuno si è preso la briga di farglielo notare. 

Poi è arrivato “Velociraptor” e le cose sono un po’ cambiate. Qui gli ammiccamenti alla classifica, le pose plastiche, gli arrangiamenti curatissimi e i ritornelli studiati ad hoc per essere cantati dal vivo, hanno iniziato a fare la parte del leone. Un disco artificioso e anche fortemente di maniera, perché alla lunga anche l’effetto sorpresa era svanito. 

Il risultato fu un successo di vendite oltre ogni aspettativa, con la band assurta al rango di prima stella del rock mondiale e, come da copione, i fan della prima ora piuttosto infastiditi. Ma “Velociraptor” era, nonostante tutto, ancora un ottimo disco. Magari non fresco come i primi due, non sofisticato come il precedente ma senza dubbio aveva canzoni veramente riuscite dalla sua parte. 

Che è esattamente quello che manca in questo “48:13”. Il quale si apre in sordina, con una sorniona citazione di “Shine on You Crazy Diamond” nelle primissime note dell’intro, per poi esplodere nella potente “Bumblebee” che assieme alla successiva “Stevie” presenta tutti ma proprio tutti gli ingredienti che è lecito attendersi dalla band di Pizzorno. Si tratta anche degli episodi che funzionano meglio: sono diretti, di grande impatto e dal vivo, dovesse iniziare così il concerto, non ci si annoierà di certo. In generale arrangiamenti elettronici molto più presenti che in passato, ma usati in maniera un po’ troppo ammiccante e scontata, come se vi fosse soprattutto l’urgenza di andare a recuperare una fan base anche tra chi normalmente mastica altre sonorità. Da questo punto di vista cose come “Treat” (con tanto di finale rappato, francamente orribile), “Glass” o “Explodes” (costruita su una melodia al limite dell’autocitazione”) risultano decisamente fragili e anche un po’ pesanti. 

Le dichiarazioni della vigilia, secondo cui questo lavoro sarebbe stato più scarno ed essenziale dei precedenti, sono state nel complesso rispettate: i nuovi brani sono potenti, suonano benissimo ma effettivamente non sono carichi di sovraincisioni e di spettri sonori come ancora succedeva in “Velociraptor”. Anche qui però, l’impressione è che se si sia voluto soprattutto snellire il tutto per rendersi ancora più immediati ed accessibili a quanta più gente possibile. Il singolo “Eez-Eh” ne è un fulgido esempio: un dance rock tamarrissimo e accattivante, il cui divertente videoclip ne costituisce però la parte migliore. 

La ballata conclusiva S.P.S. si muove a metà tra Beatles e Pink Floyd e risulta quell’omaggio alle radici che un gruppo come il loro non poteva esimersi dal fare. Peccato che il pezzo, di per sè, sia poca cosa. 

Siamo alle solite: questo lavoro venderà sicuramente tanto (non faccio stime numeriche perché ormai i dischi li compra sempre meno gente e le cifre sono tutte sfasate), piacerà sicuramente tanto e l’imminente tour (che passerà da noi a novembre) registrerà sicuramente un sacco di sold out. Tutto questo non mi farà comunque cambiare idea: “48:13” è il tassello più debole della discografia dei Kasabian e chiunque ami la musica rock in un modo per cui anche la profondità di un disco è da considerarsi un valore necessario, non potrà che liquidarlo nel giro di un paio di ascolti. 

Tornando alla dichiarazione iniziale, penso che la descrizione dell’album sia anche giusta, perché è vero che alla fine le due anime musicali sono queste: i Primal Scream e il rock dei Sixties. Ma definire tutto questo come un nuovo linguaggio musicale… ecco, direi che qui ce ne corre. Soprattutto quando l’impressione netta è che la forma abbia vinto nettamente sulla sostanza. Varrà comunque la pena andarli a sentire dal vivo: da quel lato, quando uno è bravo, è bravo per sempre…