Globalizzazione era una parola che andava parecchio di moda nei primi anni 2000. Quando nessuno, o pochi, avevano capito che cosa stesse succedendo alla specie umana residente sulla Terra. Globalizzazione era una parola che si evocava quando ci si meravigliava di quanto poco costassero le merci che arrivavano dall’oriente, o quando capitava di prendere l’autobus o la metropolitana in città, meravigliandosi di quanti stranieri ci fossero. 



D’altro canto c’è però chi, insegnando antropologia o etnomusicologia,  ha parlato del multiculturalismo come di una “grande illusione”. La musica e l’arte, specialmente nelle declinazioni popolari, nascerebbero difatti, secondo tali teorie, già contaminate. Del resto, se la consideriamo come prodotto della sensibilità, della sensibilità o dell’ingegno umani, la musica popolare è innegabilmente presente in tutte le culture. Ma c’è di più. 



Se la si osserva con spirito comparatistico, questa musica popolare presenta numerose costanti, che dimostrerebbero una ancestrale e comune origine. Abbiamo fatto questa premessa perché il disco di cui leggete, AcquaTerra degli Emian ne è -crediamo – dimostrazione piuttosto lampante. Prima di tutto, il disco ci sembra il prodotto di una certa globalizzazione culturale. Lo diciamo senza intento denigratorio, e anzi, la notazione, se non neutra è almeno priva di malizia. Che quattro ragazzi italiani residenti nella provincia di Avellino si ritrovino a suonare (anche con perizia più che discreta) della musica ispirata alle composizioni tipiche del medioevo nord europeo, con un orecchio di riguardo per la tradizione scoto irlandese, sarebbe stato impensabile anche solo trent’anni fa. 



Oggi, invece, accade. C’è da dire che il fantasy come genere prima letterario e ludico, poi anche musicale, ha conosciuto un impulso considerevole negli ultimi decenni. Tolkien è arrivato sul grande schermo, e come è noto, non mancano gli epigoni cinetelevisivi. Appare evidente la fascinazione che questo immaginario un po’ nerd e forse carsicamente pagano ha esercitato sui nostri Emian. 

Difatti AcquaTerra sarebbe un’ottima colonna sonora per un film del genere, ma anche per una sessione di dungeons’n’dragons, celebre gioco di ruolo importato e da anni oramai fenomeno globale.  Quella che  invece abbiamo ricordato come la teoria della “grande illusione” della contaminazione artistica e musicale sembra mitigare quanto detto sinora sulla natura globale, anzi globalizzata, della ricerca musicale degli Emian. Così, non deve sembrare troppo strano che dei ragazzi di Avellino facciano musica irlandese. Non più strano, almeno, di quanto doveva sembrare incredibile ai musicofili parigini ascoltare le composizioni del Chavalier de Saint George, geniale compositore e violinista francese, nato dalla relazione tra un nobile e una schiava senegalese, presto ribattezzato “il Mozart nero”. 

Fatte le debite proporzioni, si può ritrovare questo stesso concetto di meticciato nelle parole degli Emian pronunciate per descrivere il proprio lavoro: “Nella scala musicale delle aree celtiche ritroviamo la pentatonica dell’Oriente, in quella del Nord Europa c’è il sentore della scala musicale del Sud Italia. I tempi ritmici si somigliano. Abbiamo in comune il mare, questo grande e antico mezzo di comunicazione che porta novità, vita ma anche guerre e morte. In Salento ci sono scogliere e piane che evocano il paesaggio irlandese, in Irpinia ci sono fiumi, cascate, boschi di conifere che evocano i paesaggi tipici del Nord. Di mediterraneo c’è la luce, il sole, il magma sanguigno che ci scorre dentro e che è tipico della gente del Sud”. 

Elementi che in effetti ritroviamo in AcquaTerra. Musicalmente, spadroneggia la voce cristallina di Aianna Egan (la band ha scelto degli pseudonimi che andrebbero bene anche a Tolkien), intervallata e arricchita da arpa e altri strumenti a corda come violino e bouzouki irlandese. Anche le liriche rimandano a un immaginario lontano nel tempo e nello spazio. A Sailor’s Tale, per esempio, racconta la storia dell’amore impossibile di una donna per il suo uomo marinaio. Mother’s Breath, invece, mette al centro della scena l’elemento naturalistico. Come in molte culture animiste e pagane, difatti, la natura assume i connotati di una madre da rispettare e tutelare. 

Una madre che, certo, può anche rivelarsi matrigna, ma che in ultima analisi è pronta a redimere e ad accogliere, piuttosto che a punire e a condannare. Il registro è decisamente epico in The Last King’s March, dove si racconta la storia di un re che combatte fino all’ultimo valoroso sacrificio della propria vita, ma è forse in corrispondenza di Dance in Circle che gli Emian raggiungono il loro vertice qualitativo. Ancora una volta si rimanda al potere ancestrale della natura, con un arrangiamento molto studiato e riuscito, che mescola Medieval Drum Dance e Odeno Doro, un brano tipico della tradizione macedone. Il disco è consigliato a tutti coloro che amano il fantasy come genere e come sogno di realtà. 

Una realtà in cui vi siano valori condivisi che vadano un poco oltre quelli secolari e mondani che sembrano tristemente governare la nostra contemporaneità. Una realtà in cui l’uomo sappia vivere in buona sinergia con la natura e dove sia ancora lecito lasciarsi andare a credere a maghi, folletti e fate. Una realtà dove naturale e sovrannaturale sappiano fondersi e creare qualcosa di bello. Ed è forse questo quello di cui l’uomo ha bisogno oggi, come sempre: credere che il bello esista. Di più, vedere il bello attorno a sè, riconoscersi in questo e tendervi, come si vorrebbe tendere alla virtù. Un processo lungo e accidentato, da cominciare, magari, semplicemente, ascoltando un cd.