“Reflektor” è stata una delle uscite più interessanti dell’anno passato, probabilmente la migliore in assoluto, per quanto mi riguarda. All’estero se ne sono accorti in molti, tributando alla band canadese riconoscimenti vari e posizioni da headliner nei principali festival in Europa, Stati Uniti, Australia e Sudamerica. Ma gli Arcade Fire, affermatisi ormai tra i nomi principali della scena rock mondiale, in Italia sono rimasti ancora allo status di promessa. Lo si è visto anche per queste due date italiane, annunciate a novembre dopo un’attesa spasmodica da parte dei fan, che temevano che Win Butler e soci avrebbero snobbato il nostro paese per scarsità di risultati ottenuti in termine di vendite. 



Nonostante l’iniziativa degli organizzatori e nonostante la bellezza dell’ultimo disco, non c’è stato nessun frenetico sold out e ancora il giorno stesso dell’evento c’erano numerosi biglietti disponibili in cassa. Occorre però fare le cose con calma: alla fine, il castello Scaligero di Villafranca (una location eccezionale, complimenti davvero agli organizzatori) risulterà bello pieno, con un pubblico entusiasta e variegato per look e per età (non solo hipsters, dunque!). 



Si inizia alle 21.50, con il cielo completamente coperto da nuvole minacciose, presagio di un temporale per altro annunciato ampiamente dalle previsioni della vigilia. 

A dare inizio alle danze il solito “uomo riflettente”, quel personaggio che abbiamo già avuto modo di vedere nel video di “Reflektor” realizzato da Anton Corbijn e che in questo tour annuncia la band nella lingua del posto. Immediatamente i sei, più tutta una serie di guest musicians ai fiati e alle percussioni, prendono il loro posto sul palco. Palco che, in linea con la cover e il concept del disco, è addobbato con una serie di specchi sulla parte alta, che riflettono quanto accade di sotto e un set di luci mobili, sempre decorate a specchio, che si alzano e si abbassano creando un effetto suggestivo. 



La scaletta di questo tour è abbastanza fissa ed è dunque l’accoppiata “Reflektor”/Flashbulb Eyes” a dare il via alle danze. Suoni nitidi e puliti, seppure con il basso parecchio in evidenza (ma d’altronde era così anche sul disco), impatto travolgente già dai primi minuti. Dopo la scorpacciata classic rock del tour di “The Suburbs”, gli Arcade Fire hanno abbandonato l’essenzialità e hanno messo in piedi uno spettacolo in cui è il ritmo ad essere il vero protagonista. Uno show modellato in tutto e per tutto sui temi del nuovo disco, i cui brani costituiscono giustamente una buona metà di quello che verrà proposto: uso abbondante di campionamenti, fiati, percussioni, a creare quell’atmosfera dance in cui la New Wave si mescola ai ritmi di Haiti, con un risultato irresistibile, dove stare fermi è assolutamente impossibile. 

“Power Out”, la prima incursione nel vecchio repertorio, è di una potenza tale da spazzare via tutto ed è impressionante notare come sia assolutamente in continuità con quanto è stato appena suonato. Prova della brillante capacità di rileggersi che questi ragazzi hanno, dato che, ascoltate in studio, queste sono canzoni completamente diverse. 

Poi a ruota arriva “Rebellion”, ritmo scatenato e tutti a urlare a squarciagola il “Lies!” del ritornello. Quella della partecipazione del pubblico è stato un altro dato assolutamente positivo: la maggior parte della gente ha saltato e ballato per tutto il tempo, cantando a memoria tutte le parole delle canzoni. Una situazione che non si vede dappertutto e che ha visibilmente impressionato la band, a giudicare dagli sguardi felici che avevano e dalle volte in cui Win rivolgeva il microfono verso la folla. 

“Joan of Arc”, col suo inizio quasi punk e il suo andamento travolgente, è stata un’altra pazzesca botta di energia e ha visto Regine Chassagne eccellere anche per la componente teatrale di cui ha dotato il pezzo. Già, perché la parte visiva in uno show degli Arcade Fire è di straordinaria importanza: sono tutti musicisti preparatissimi e quindi la qualità dell’esecuzione è comprensibilmente alta, unitamente alla resa degli arrangiamenti, sempre molto raffinati e complessi. È però impressionante vedere come ognuno di loro viva il concerto in maniera assolutamente fisica: Win, voce e chitarra, nel ruolo del mattatore, interagendo spesso e volentieri con la moglie Regine, che a sua volta si occupa di alcune parti vocali e si divide tra tastiere e batteria a seconda dei pezzi, il tutto con un carisma e una presenza scenica da lasciare senza fiato. Poi Richard Parry e Tim Kingsbury, che si alternano tra chitarra, basso e tastiere, e che costituiscono l’autentica ossatura musicale delle esecuzioni. Si divertono come dei pazzi e, soprattutto Richard, lo dimostra più che ampiamente, agitandosi e ballando a più non posso. Sara Neufeld, violinista e talvolta percussionista, è un altro elemento indispensabile e i suoi interventi sono sempre preziosi. Dal canto suo, Will Butler (fratello di Win) è l’autentico giullare della compagnia e si potrebbe tranquillamente gustarsi il concerto guardando solo lui. Ma al di là di questo, il suo ruolo nella gestione dei campionamenti è tutt’altro che secondario. Aggiungiamo che il batterista Jeremy Gara è un’autentica macchina da guerra, che tiene in piedi tutto facendo cose semplici ma assolutamente non banali, e avrete il quadro completo. Oltre a tutto questo, la sezione fiati e percussioni che, presente nel tour di “Neon Bible” e successivamente accantonata, ha dato a molti dei brani (soprattutto a quelli di “Reflektor”) un tiro e una profondità fuori dal comune. 

La setlist è equilibrata e vincente: tenendo i nuovi pezzi come filo conduttore, si spazia spesso e volentieri nel vecchio repertorio, adagiandosi sui vecchi classici ma rivisitando anche cose meno immediate e apparentemente più fuori contesto: è il caso della splendida “The Suburbs”, che esplode poi in “Ready to Start”, autentica cavalcata rock che fa impazzire tutti e che neppure un battibecco tra Win e uno della prima fila, riesce a rovinare (non si sa cosa sia successo ma  il cantante è apparso parecchio incavolato). 

Si ritorna al nuovo album con “We Exist”, aggiunta nelle ultime date e che dal vivo funziona veramente bene. Il video diretto da David Wilson aveva scatenato polemiche per il modo simpatetico con cui racconta la vicenda di un travestito. In realtà lo hanno fatto in maniera discreta e delicata e le parole con cui Win lo introduce (“Questa canzone parla dello stare bene dove si è e come si è”) lo lascia pienamente ad intendere. 

“We Used to Wait” è una splendida perla dal disco precedente che arriva assolutamente inattesa, dato che non era quasi mai stata suonata in questo tour. 

Poi, quando Win imbraccia un mandolino americano e Regine una gironda, capiamo che è il momento di “Keep the Car Running”: altra cavalcata inarrestabile, altro autentico spettacolo da vedere e da sentire. Segue a ruota “No Cars Go” ed è una versione bellissima, forse una delle più belle di sempre, con un finale dove pubblico e band sono quasi una cosa sola. 

Con “Haiti” Regine si porta al centro dello stage, per cantare e ballare un omaggio alla sua terra d’origine, terra che gli Arcade Fire hanno sempre avuto nel cuore e che dopo il terribile terremoto del 2010 non hanno più abbandonato: anche questa sera c’erano volontari che vendevano magliette il cui ricavato sarebbe andato a finanziare la fondazione Kanpe, che si occupa proprio di aiuti umanitari a quel paese. 

“My Body is a Cage” viene solamente accennata, in una versione solo vocale: ma è significativo perché questa sorta di gospel in cui si lamentava la difficoltà ad esprimere liberamente i propri sentimenti, appesantiti dalle costrizioni del mondo, adesso diventa introduzione alla danza liberatoria di “Afterlife”. Un modo per dire che con “Reflektor” i nostri sono riusciti a diventare più autenticamente loro stessi. 

“It’s Never Over”, il secondo dei due pezzi dedicati alla tragica vicenda di Orfeo ed Euridice, costituisce forse il momento più alto dello show, per il modo con cui il suo trascinante beat funk si sposa con la suggestiva interpretazione che ne danno Win e Regine: lui (Orfeo), al centro del palco, lei (Euridice) sulla passerella posta in mezzo al pubblico, con alle spalle un uomo vestito da scheletro, personificazione evidente delle forze infernali che se la sono portata via per sempre.  Pensare che sono marito e moglie e che hanno visto in questo mito un modo per raccontare il loro rapporto, la dice lunga sul loro grado di profondità e consapevolezza. 

È anche il momento in cui dal cielo cade qualche goccia di pioggia: l’inferno, per fortuna, è rimasto solo nella canzone. Ci è andata bene, anche perché tutto intorno il cielo mandava bagliori che nulla avevano da invidiare agli effetti di luce del palco. 

Siamo alla fine, purtroppo: il main set si chiude con “Sprawl II”, un’altra incredibile esecuzione, per un brano che è insieme spensierato e nostalgico al tempo stesso. 

Tempo qualche minuto e sulle note di “Pie Jesu”, compaiono una serie di personaggi non meglio identificati, tutti con indosso le celebri maschere di cartapesta inaugurate nel video di “Reflektor” e ormai presenza fissa nei loro show. Al centro campeggia la figura di Papa Francesco che, una volta caduta la maschera, si scopre essere lo stesso Win. Una satira, leggera ma piuttosto eloquente su una certa invadenza che Win e Regine hanno sempre rimproverato alla Chiesa cattolica, soprattutto nei rapporti coi paesi del Terzo Mondo. In effetti questa scenetta serve ad introdurre “Here Comes the Night Time”, che a queste tematiche sembra alludere qua e là. È anche il brano che forse più rappresenta l’essenza “danzante” di “Reflektor”, per cui l’atmosfera è quella di una enorme, gioiosa festa collettiva, evidenziata ancora di più dalla colossale pioggia di coriandoli che ci ha investiti a fine brano. 

Dopodiché ecco “Normal Person”, geniale satira del rock che incrocia punk, Stones e New Wave, e che è ideale per proseguire le danze, in un’entusiasmo collettivo ormai impossibile da frenare. Ci pensa l’urlo liberatorio di “Wake Up” a far buttar fuori tutto quello che c’era da buttare. Nuovamente la band rimane stupita dal calore del pubblico e nel finale si ferma per ascoltare le migliaia di voci che cantano il ritornello del pezzo. 

Questa volta è veramente finita. Non è durato neanche due ore ma nessuno si sogna di dire che sia stato corto. Di fronte a uno spettacolo del genere, cosa si può pretendere di più? 

Non lo so se gli Arcade Fire possano essere considerati la migliore live band attualmente in circolazione. Di sicuro c’è che in vent’anni che giro per concerti, raramente ho visto una cosa simile. Non sto esagerando. Dedicato a tutti quello che: “Cosa faremo quando si ritireranno gli Stones?”