Nella notte più profonda, quando il silenzio diventa assordante e la tranquillità assoluta, quando la città è completamente addormentata e per le strade non si trova anima viva, in quelle notti di cielo terso in cui l’aria è fredda e tagliente, allora la luce della luna piena ha lo stesso suono dei rintocchi di una campana.



E’ da questa immagine che nascono i dodici brani dell’ultima fatica degli Hundred Waters. Una manciata di canzoni dalla glaciale dolcezza nordica che difficilmente si coniuga con la provenienza (Florida) della band che le ha composte e realizzate. Formatisi nel 2011, vengono subito messi sotto contratto dalla OWSLA di Skrillex, e nel 2012 rilasciano il loro primo, e omonimo, LP. Nel 2013 danno alle stampe un Ep il cui nome è già un programma: “Boreal”, che è solo l’anticipazione di ‘The Moon Rang Like a Bell’. Lavoro con cui compiono un passo decisivo verso la completa maturazione della loro musica.



L’ambient è la base, l’amalgama, da cui ogni pezzo si sviluppa, prende forma e cresce fino a diventare qualcosa di indipendente e completamente diverso dall’origine. Le atmosfere che attraversano l’album sono delicate e sognanti, la voce di Nicole Miglis è un sussurro che culla il nostro riposo, una nenia dentro cui ci si perde completamente e le preoccupazioni quotidiane trovano pace. L’elettronica che la accompagna è calda ed elegante. Raccoglie spunti che vanno da Detroit a Bristol passando per l’Islanda. Il quartetto statunitense arriva così a creare canzoni che sembrano essere composte dalla stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.



L’album comincia con la ninna-nanna ‘Show Me Love’ della breve durata di 1 minuto e 16 secondi, interamente eseguita a cappella, dove le voci della già citata Nicole Miglis e di Zach Tetreault chiedono: “Don’t let me show cruelty/Though I may make mistakes/Don’t let me show ugliness/Though I know I can hate/And don’t let me show evil/Though it might be all I take/Show me love”. Proprio come una mamma augura tutto il bene del mondo al proprio bambino mentre cerca di farlo addormentare. Il torpore sale ulteriormente con le ipnotiche ‘Murmurs’ e ‘Cavity’ con l’andamento ciondolante del trip-hop dei Massive Attack e tanto di ritornelli liberatori, neanche fossero cantati da Beth Gibbons. Arriva poi un pianoforte campionato accompagna le ansie di ‘Out Alee’, il timore e l’agitazione presenti in questa canzone ci fanno preoccupare che il sogno possa trasformarsi in un incubo: “There, there out alee/There out a’leaning/Thought I saw lightning/There in the middle of… what a haze/Just a phase!/Oh very oh so frightening”. 

Si passa allora ad Innocent che re-interpreta in chiave onirica il pop elettronico, diradando le nubi della preoccupazione e trasportandoci in una profonda fase rem. ‘Broken Blue’ e ‘Chambers’, tanto rarefatte e impalpabili quanto struggenti e malinconiche, citano Bjork e ci trasportano in un attimo in uno stato quasi comatoso dove respirare è reso complicato dal peso che si viene a creare sullo stomaco e la stanchezza cinge un cerchio attorno alla testa: “But you must be tired/You spread the finest bed/Tuck it in say/Tomorrow’s gonna be a big day/Then watch it drift away/And all at once it’s broken blue” e “So suddenly/You find it hard to breathe/From the window pane/On a passing train you only want to reach out”. ‘Animal’, invece, è arricchita da una deep house sofisticata e orientaleggiante mentre XTalk ricorda molto quei minimalisti de The XX. ‘No Sound’ posta alla fine di questo viaggio oscuro, incantatore e pieno di classe ha il compito di svegliarci e proprio come Aprile secondo Elliot è la più crudele delle canzoni poiché mescolando memoria e desiderio risveglia le radici sopite che l’inverno mantenne al caldo e ottuse sotto un manto di neve.