Ci sono volte in cui viene da chiedersi che cosa ci sia di speciale nelle canzoni. Nelle canzoni che si amano. La tentazione razionalistica è quella di sezionarle, di smontarle verso per verso e nota per nota, di analizzarne il significato, la forma musicale, la forma letteraria, la storia della realizzazione, i doppi sensi, i rimandi, i messaggi nascosti e così via dicendo. Non c’è modo peggiore di questo per ammazzare una canzone.
C’è una sorta di mistero, una forma speciale di grazia nelle canzoni: tre, quattro, cinque minuti, a volte qualcosa in più, altre qualcosa in meno, in cui sono condensati i sentimenti che contraddistinguono la vita. Spesso, preso a sé, il testo non è gran cosa a livello letterario. Così anche la musica. Però è proprio la commistione fra la musica e le parole, in cui l’una sostiene le altre e viceversa, il luogo dove avviene il miracolo. È un’alchimia strana, eppure è un qualcosa che può cambiare radicalmente la vita a chi ha l’animo disposto ad accoglierla.
Bruce Springsteen diceva di aver imparato di più da un disco di tre minuti di quanto avesse imparato a scuola. Quella stessa frase, tratta da No Surrender, uno dei brani che più si avvicinano a descrivere compiutamente il mistero del rock è finita come epigrafe della tesi di laurea in giurisprudenza del sottoscritto, causando la reazione quasi scandalizzata dei professori della commissione. Non è un’iperbole: è la pura verità.
Un altro grande artista, Nick Cave, raccontando della prima volta in cui – intorno al 1979 – da un juke box sentì uscire le note di Gotta serve somebody di Bob Dylan, disse di essere stato trafitto da quella canzone e di essersi immediatamente domandato di come fosse possibile che le vite di tutti i presenti non fossero state cambiate irrimediabilmente da quell’ascolto.
Certo, Gotta serve somebody è un pezzo dal contenuto profondissimo (è il primo brano del periodo cosiddetto “cristiano” di Bob Dylan e dice, in sostanza che nella vita non si può fare altro che servire qualcuno, o Dio o il Diavolo) e Dylan è uno dei pochi autori di canzoni che possano avere anche una dignità “letteraria”. Per cui è facile rimanere attoniti di fronte ad una canzone del genere. Il vero miracolo è che la vita possa essere cambiata anche da canzoni apparentemente molto meno profonde.
Nel 1970, un cantante e pianista inglese muoveva i primi passi discografici insieme al suo compagno musicale di una vita, che gli scriveva i testi. Erano Elton John e Bernie Taupin, coppia affiatatissima e che, per alcuni versi, può essere ragionevolmente paragonata, prendendo come riferimento la scena musicale di casa nostra, alla coppia Lucio Battisti – Mogol.
Dopo un primo tentativo nel 1969, intitolato “Empty sky” e parzialmente ripudiato dal suo stesso autore, Elton John si ripresentava nuovamente sulla scena con un disco intitolato semplicemente con il nome del suo autore, sulla copertina a fondo nero campeggiava il viso del musicista in controluce, con l’aria pensierosa. A suggellare il lavoro e a dargli compiutezza, oltre allo stile decisamente americano di Elton John e alle liriche lineari di Taupin, venivano poi gli arrangiamenti per archi di Paul Buckmaster, che avrebbe poi lavorato – fra gli altri – anche per Cat Stevens, Rolling Stones, Miles Davis e Leonard Cohen. L’incipit di quel disco è una di quelle canzoni toccate da quella grazia misteriosa che può cambiare la vita. E quella canzone è la celeberrima Your Song.
E’ una delle più belle canzoni sull’amore (si badi bene, “sull’amore” e non “d’amore”) che siano state scritte. Parla del dono di sé e della necessità che nella vita venga qualcuno a rendere le cose di ogni giorno misteriosamente belle. Parla quindi dei desideri più profondi dell’uomo.
Preso di per sé e slegato dalla musica, il testo non sembrerebbe particolarmente originale o letterariamente ricco. Anzi, dice cose abbastanza lineari: il protagonista sta scrivendo una canzone e sta pensando alla persona di cui è innamorato. E le sta dedicando i versi che le sta scrivendo: “puoi dire a tutti che questa è la tua canzone. Forse è un po’ banale ma spero non ti dispiaccia quello che ho messo in versi: quanto è meravigliosa la vita finché ci sei tu al mondo”.
Eppure, il miracolo avviene. L’incipit, con quell’arpeggio sul pianoforte, la prima strofa, in cui l’accompagnamento si limita a qualche nota di basso e chitarra acustica, è un presagio di qualcosa di grande, così come la prima strofa in cui fanno capolino gli archi con un tappeto di note basse, fino al primo ritornello in cui la melodia si apre delicatamente e gli archi iniziano un vero e proprio contrappunto alla melodia.
La strada è segnata, l’autore prende coraggio e capisce che quella canzone è il dono più grande che può fare alla persona amata. E nella prima strofa dopo il ritornello entra anche la batteria a dare corpo ai pensieri ed alle parole, fino all’ultima strofa, con gli ultimi versi a recitare: “E scusami se non ricordo qualcosa ma a volte mi capita…vedi, ho dimenticato se i tuoi occhi sono verdi o sono azzurri. Però, vedi, l’unica cosa che conta è che i tuoi sono gli occhi più dolci che io abbia mai visto”. Chiunque, nella vita, ha incontrato degli occhi così, con un loro colore unico e un loro taglio (per me quegli occhi, per esempio, sono piccoli, azzurri e profondi) e la commozione che dà il guardarli, eppure quasi nessuno è riuscito a descrivere questi sentimenti meravigliosamente come Elton John e Bernie Taupin.
Si arriva così all’ultimo ritornello i cui versi conclusivi sono ripetuti due volte, mentre gli archi crescono quasi senza accorgersene, per arrivare al finale, che ha dentro di sé il senso profondo di tutta la canzone. Una nota di contrabbasso, una nota sola, ripetuta tredici volte (tredici volte!). In quella nota di contrabbasso che ribatte e tende all’infinito c’è tutto il desiderio, c’è tutta l’attesa che la canzone aveva provato a descrivere per le parole e che finalmente si compie.
Quella nota di contrabbasso è uno dei piccoli momenti che possono fare grande la vita. È uno dei momenti si può percepire la grandezza dell’animo umano e in cui, sì, una canzone può risvegliare il cuore. E di fronte a momenti così non si può che rimanere attoniti e in un silenzio d’attesa. E augurarci che quella grandezza riaccada in ogni momento.