Un disco tributo di solito si tende a farlo bello fragoroso: artisti di punta, riletture estrose delle canzoni originali, pigiando bene l’acceleratore sulla potenza sonica. In un certo senso ci sta: si vuole attirare l’attenzione sull’autore, anche se spesso si finisce per voler mettere in evidenza solo se stessi. Buon esempio è proprio il precedente tributo a Warren Zevon, uscito pochi mesi dopo la morte dell’artista californiano, infarcito di grandi nomi, pure di una star hollywoodiana come Adam Sandler che ci azzeccava come il due di picche. A parte i contributi live di Dylan e Springsteen, un tributo buono per post hippie diventati yuppie, niente di più lontano dallo spirito di Zevon.
Phil Cody ha scelto un approccio diverso. In parte perché è una sorta di fantasma anche lui. Nel 1996 aveva esordito con uno dei dischi di songwriting più belli di quel decennio, e capace di farsi mettere in fila insieme ai migliori esordi di sempre. A “The Sons of Intemperance Offering” purtroppo era seguito ben poco degno di nota, e del lontano parente di Bufalo Bill (William Cody) si erano perse le tracce.
Tracce che ritroviamo adesso grazie a un disco contenente solo canzoni di Warren Zevon, scomparso nel 2003, uno dei massimi talenti mai espressi dalla musica americana di sempre. Non sappiamo perché abbia deciso di fare questo disco, anche se istintivamente ci viene da pensare che i due abbiano più di qualcosa in comune. Non solo la capacità di scrivere splendide canzoni, ma anche una buona dose di sfiga, quel “bad karma”, quella sorte da beautiful loser che sembra accomunarli, insomma la gente con il cuore grande difficilmente è a suo agio in questo mondo (e anche un po’ la voce, sgangherata e spezzata in modo uguale).
Per rileggere le canzoni di Zevon, Phil Cody ha scelto il metodo più sincero, onesto, diretto. Lo canta in modo sommesso, sussurrato, facendosi quasi preghiera. A parte l’iniziale bislacca Boom Boom Mancini a tempo di reggae, le spigolosità e l’approccio sfrontato, elettrico e spesso devastante dei brani originali viene accantonato. Cody canta e piange e fa piangere con la scelta di brani anche poco noti dall’immenso songbook dell’artista californiano, e alla fine ha ragione lui. Questo è uno dei migliori e più sinceri tributi che si siano mai ascoltati.
Delicatezza, rispetto e amore sconfinato, quasi una carezza la sua sulla lapide del musicista scomparso. Phil Cody questo tributo lo fa con le sue armi: poche chitarre acustiche splendidamente suonate dove le corde di acciaio vibrano di mille sentimenti, un pianoforte, una batteria spazzolata, una slide, un banjo. Elimina del tutto le spigolosità schizoidi proprie di quel genio folle che era Warren Zevon, togliendo rumorosità elettrica e lasciando solo dei vuoti da riempire. Con le lacrime, se volete, visto che stiamo ripassando alcune delle più belle canzoni della storia della musica. Evita le facilonerie, cioè le canzoni più note, e scava nel pozzo.
Splendid Isolation, ad esempio: irrefrenabile rock nell’originale, cavalcata orgogliosa e disgustata, diventa qua soffice preghiera sussurrata: la solitudine come necessità esistenziale. E così il resto del disco. Pezzi di una intensità devastante, ricondotti ai minimi termini, cantati sillabando con dolore, rabbia, disperazione ogni singola parola. Ecco che la gioiosa pazzia di Warren Zevon viene ricondotta a una lamento: Johnny Strikes up the Band, Roland the Headless Thompson Gunner, The Hula Hula Boys rinascono come canti di addio e allo stesso tempo di infinita presenza. Cody ci si immerge dentro fino al midollo e ne esce vincitore, per quanto questa si possa chiamare vittoria (“O morte dov’è la tua vittoria”, verrebbe invece da dire, canzoni queste che potrebbero essere canzoni di resurrezione). L’innata poesia lancinante di Mutineeer, Desperate Under The Eaves, Lord Byron’s Luggage, The Indifference of Heaven così ricondotte, urlano forte che sì, Warren Zevon è stato il più grande compositore americano della generazione rock, un gradino sotto soltanto a Bob Dylan. E il finale arriva con la preghiera.
Warren Zevon non ha mai maledetto la notizia che sarebbe dovuto morire dopo qualche mese. Ci ha detto invece di imparare a gustare ogni sandwich, che ognuno di essi potrebbe essere l’ultimo. La vita è un amore che va preso a piene mani, ogni singolo istante, come se fosse l’ultimo. “Don’t let us get sick don’t let us get old don’t let us get stupid, all right? Just make us be brave and make us play nice and let us be together tonight”. Fa che non ci ammaliamo, fa’ che non diventiamo vecchi, fa che non ci comportiamo da stupidi, va bene? Fa soltanto che siamo coraggiosi e che ci comportiamo bene, e fa che stasera possiamo essere insieme”. Una canzone, Don’t Let Us Get Sick, che è un manifesto di accettazione oltre ogni ragionevole speranza.