Quando il capello s’imbianca e forse pure la vena creativa si stanca, ognuno reagisce a modo suo. Vale ovunque, pure nel rock’n’roll circus. Si può invecchiare replicando all’infinito la propria fama (ed il concerto degli Stones a Roma forse ne è stato l’esempio sublime). Si può ingrigire annunciando di lasciare la vita sul palco (come ha fatto recentemente Eric Clapton). Si può prendere a schiaffi l’anagrafe, come ha fatto Johnny Fogerty (69 anni appena compiuti), anche lui recentemente in Italia a dimostrare (più di Springsteen e prima di Springsteen), una fame di palco e di pubblico che è di pochissimi musicisti agli stessi livelli di presenza, qualità delle composizioni (da “Fortunate Son” a “Have You Ever Seen the Rain”), e tecnica chitarristica.



Ognuno, insomma, affronta gli anni che passano. Ma le storie di un paio di rocker possono offrire spunti stimolanti. Gregg Allman è uno dei più giovani di quelli sin qui accennati. Nato a Nashville nel ’47, a conti fatti ha “solo” 67 anni, ma visto che nella vita non si è mai fatto mancare nulla, mostra nel volto e nelle rughe qualche anno più degli altri. Leader di quella che oggi è la più longeva e leggendaria rock band americana, la Allman Brothers Band (considerando che i Grateful Dead non esistono più come ensemble e i Jefferson Airplane non hanno ormai continuità artistica), il biondo Gregg da un lato ha annunciato la “fine” della formazione che ha creato in Florida con l’indimenticato fratello Duane nel 1969 (la fine dell’avventura come gruppo – che sarà sancita da una serie di concerti in ottobre – è dovuta ai vari interessi dei componenti, tutti impegnati con altre band), ma dall’altro ha fatto capire che, nei limiti permessi dalle sue condizioni fisiche, c’è una scena musicale che vuol continuare a frequentare.



E Gregg l’ha fatto pubblicando un doppio album live, “All my friends”, che raccoglie registrazioni di una notte on stage con un plotone di bei musicisti americani, da Dr.John a Jackson Browne, da Robert Randolph a Vince Gill, da Sam Moore a John Hiatt, da Zac Brown a Jim Hall. Il disco è perfetto, con canzoni storiche tirate a nuovo come “Midnight Rider” e “Whipping post” (in una delle versione più acide e vertiginose mai ascoltate) ed il gran finale affidato a “Will the Circle Be Unbroken”, un traditional codificato dalla Carter Family, pezzo indimenticabile che già nel ’74 (corsi e ricordi della storia) aveva chiuso il primo bellissimo album di Gregg in solitaria, “The Gregg Allman Tour Live”.



Il nuovo disco, uscito due settimane fa, come declama il sottotitolo (“Celebrating the song and voice of…”) è una celebrazione, come ovvio, di uno dei migliori songwriter della storia del rock, ma soprattutto offre una direzione di marcia per chi si chiede cosa farà mister Allman nel futuro: southern rock profondamente venato di soul, con quell’immarcescibile vena blues e gospel che fanno di pezzi come “Win lose or draw” o “Please Come Home” dei perfetti esempi di grande scrittura trasversale a tutta la tradizione americana. Chitarre e Hammond, ma anche fiati (a volte sembra si sentire la spinta di una rhythm’n’soul revue in perfetta tradizione Stax, oppure la sezione fiati che rendeva così poderose le accuratissime partiture dei Blood, Sweat and Tears), qualità e feeling: Gregg Allman ha mostrato cosa farà “da grande”, calandosi virtualmente nel ruolo di grande catalizzatore bianco della musica del Sud, di quell’immensa fascia di culture e tradizioni che vanno dalla Georgia alla Louisiana, partendo da Atlanta e arrivando a New Orleans, passando per Memphis e Nashville. In attesa di sapere quando uscirà il prossimo disco da solista di Gregg Allman, visto che il suo ultimo prodotto, “Low country blues”, è del 2011, la percezione che lascia questo album è che ci sarà ancora molto da divertirsi con lui, con o senza i leggendari compagni di un tempo (ben sapendo, comunque, che sono proprio suoi i migliori pezzi dell’ultimo album della ABB, “Hittin the Note”: “Desdemona”, “High cost of low living” e “Old before my time”).

Chi invece ha già un disco in uscita con cui dimostrare che non è ancora giunta l’ora della pensione, è il signor Robert Plant, l’uomo che scombina le carte a chi pensa che le vecchie rockstar vivano solo di rendita, in perfetto stile Jagger e compagni. La voce dei Led Zeppelin (classe ’48), capello riccio e lungo d’ordinanza, ha calcato un paio di palchi italiani la scorsa settimana, ed ha mostrato di essere la più orgogliosa risposta alla sfida dell’età che avanza. Un disco in uscita a settembre, “Lullaby and…. The Ceaseless Roar”, un carisma on-stage che rimane quello dei tempi d’oro, una criniera immutata, come fossero ancora i giorni degli “hammer of God” descritti con qualche mitica esagerazione da Stephen Davis.

Irrequieto, mai sedentario artisticamente e umanamente, Plant è il contrario della standad rockstar, quasi dylaniano nel suo rifiutare i clichè. A Padova, sotto il palco, i fan delle primissime file hanno continuato a chiedergli pezzi degli Zeppelin: “Stairway to heaven!”. E lui noncurante, ha sibilato con una certa ironica gentilezza: “ma andatevene a dormire”. Più tardi, terminando un concerto forse un po’ troppo breve (meno di novanta minuti) con “Whole Lotta Love”, si è permesso di trasfigurare uno dei capolavori del rock in un brano di world music acida, sostituendo uno dei più famosi break chitarristici con un una parte solista per violino africano, un quasi mantra capace di insinuarsi sotto-pelle e sotto-anima. Pazzia e genialità: verso i settant’anni ci si può ripensare ancora così, con la voglia di  provare e provarsi. Ma non è una novità, visto che il Plant degli ultimi decenni ha peregrinato per ogni dove: è stato a incontrare musiche e musicisti in Mali, nelle terre celtiche e gallesi, in Texas e nelle miniere del country’n’western (dove si è pure sposato con Patty Griffin, la stupenda cantautrice di “Downtown Church” e di “Impossible Dream”). 

L’ultima volta che ho avuto il piacere di vederlo onstage (era il 2000), si esibiva con una band, The priory of Brion, in cui hard-rock e influenze progressive-celtiche, la facevano da padrone. Oggi spicca il volo verso una psichedelia in cui rock e blues del Delta (mai così acido, mai così swamp), si intrecciano con suoni astrali, africani, berberi, griot. In un concerto in cui la stella polare è stata la versione mozzafiato di “Babe i’m Gonna Leave You” (ma non sono da dimenticare “Spoonful”, “Fixin to die” e la rivisitazione in disguise di “Communication Breakdown”), le nuove canzoni come “Rainbow”, “Embrace”, “Little Maggie”, “Turn it up” sono un autentico scrigno di tesori ben nascosti, qualcosa che si muove dalle parti di “Kashmir” e “No quarter”, qualcosa che sarebbe forse piaciuto a Syd Barret e che porta una impronta “plantiana” evidente e distinguibile all’interno di un panorama dove influenze africane e di world music vastissima si compenetrano con un hard-psichedelico decisamente potente, a volte luminoso e a volte cupo. Si invecchia benissimo anche così, e anche meglio: egregiamente calcando un palco, godendo della propria carismatica e artistica presenza, e mettendo il tutto a servizio di una nuova tappa artistica, di una nuova ricerca che lascia meravigliati chi già conosce il cammino precedente e stimola terribilmente chi è più giovane ad andare oltre i cliché. Per gli altri, per chi continua a chiedere “dacci le cose già note” arriva l’invito fatto in pubblico: “ma andatevene a dormire”.

Forse perché anche nel rock – oppure: soprattutto nel rock, che una volta era trasgressione e rivoluzione – è necessario non fermarsi. Non fermarsi. Mai. Un po’ quello che ci obbliga a fare la vita, volenti o no.