Quarant’anni fa, di questi giorni, veniva dato alle stampe “On The Beach”, il disco più scuro di tutta la carriera di Neil Young ma per molti anche il suo capolavoro. A riprova della sua natura tormentata e sofferta, per anni il suo autore si era rifiutato di ripubblicarlo in cd, avvenuta soltanto nel 2003, dopo anni di fuori catalogo. Troppo forti i ricordi di quel periodo, segnato dalla rottura dell’artista canadese con la prima moglie, poco dopo la nascita del figlio Zeke che era venuto alla luce con dei seri problemi di handicap, nonché dalla perdita di due amici come il chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten ed il roadie Bruce Berry, entrambi morti per overdose di eroina.
“On The Beach” era un lavoro tortuoso e per niente omogeneo, lontano dalla lucente compostezza acustica di “Harvest”, il suo disco più amato dal pubblico italiano, ma anche dalla ruvida spavalderia elettrica di “Everybody Knows This Is Nowhere”, che segnava l’inizio del sodalizio ultraquarantennale – quante band possono dire di essere sopravvissute così a lungo, nella storia del rock? – con i Crazy Horse. Nelle sue tracce si passava dal rigoroso folk rurale di For the turnstiles, alla elettricità sospesa nel dubbio di due terzi della trilogia dei “blues” – Vampire Blues, così ricca di humor nero e veleno, Revolution Blues, rabbiosa e politica, un atto di accusa contro le bugie di Mr. “comprerestemaiunamacchinausatadaquestuomo?” Richard Nixon. A suggello, giungeva il climax di introspezione quasi auto-analitica di On The Beach, i cui squarci elettrici fendono l’aria come i fulmini che preannunciano da lontano un temporale, e Ambulance Blues, forse la vetta assoluta dell’opera younghiana, una lunga confessione acustica, il cui riff era inconsapevolmente preso in prestito da Needle Of Death di Bert Jansch, in cui ce n’è per tutti: per se stesso, per i vecchi compagni Crosby, Stills e Nash, per Nixon, per la situazione politica americana, per la fine del sogno della pace e dell’amore, sepolto dall’eroina e soffocato dai semi di zizzania della morte.
“On The Beach” non era però solo un momento di autoanalisi personale, la sublimazione di un momento di difficoltà del privato di Neil Young. Era il manifesto della sconfitta di un’intera generazione. I fumi dell’ebbrezza di Woodstock e del “fate l’amore e non la guerra” erano oramai svaniti lasciando il posto ad un panorama di desolazione in cui lo slancio collettivo, la speranza di poter cambiare con le sole proprie forze il mondo, era sostituito da una sempre più crescente e quasi psicotica introversione. Un chiedersi “dove abbiamo sbagliato”: ecco il messaggio di cui Neil Young con On The Beach si fa portavoce.
Già, perché Neil Young è sempre stato un inguaribile romantico, un anacronistico hippy che non si è mai rassegnato alla sconfitta del sogno dell’amore e ha sempre battagliato duro contro le avversità della vita, sia dal lato privato: oltre al primo figlio Zeke, anche il suo secondo figlio Ben – nato dall’unione con la seconda moglie Pegi, sodalizio che dura da quasi quarant’anni – è nato con una gravissima forma di handicap, mentre la figlia Amber Jean soffre di epilessia. Inoltre, da anni Young è impegnato in una serie di battaglie per lo sviluppo sostenibile dell’agricoltura e dello sfruttamento delle forme di energia non rinnovabile, che lo hanno portato alla trentennale esperienza del Farm Aid, un evento annuale a sostegno dei coltivatori diretti americani il cui impegno è sempre più messo in discussione dallo sviluppo delle colture massive.
E anche il suo percorso musicale, dopo On The Beach è stato un continuo alternarsi di cadute e ripartenze di dischi a volte rabbiosi, a volte sereni, a volte , sofferti e contorti. “Il sogno è finito”, cantava John Lennon. Chissà se, a questa affermazione, Neil Young avrebbe risposto alzando il dito medio e alzando i volumi della sua Gibson Les Paul nera, la “Old Black” che sono lui e il tecnico Larry Cragg possono toccare. Immaginiamo di sì.
Chi l’ha visto suonare a Barolo, sulle colline langarole, con i suoi fidi Crazy Horse (con l’imperturbabile Rick Rosas al basso al posto del convalescente Billy Talbot e con l’aggiunta di due coriste di colore, provenienti dall’ultima band del compianto Willy DeVille) è pronto a giurare che no, il sogno per Neil Young non è affatto finito. E il sogno è fatto di concretezza, di una ricerca spasmodica dell’amore, quello con la A maiuscola.
Il concerto di Barolo ha riportato alla luce il Neil Young sognatore. Basta leggere i titoli dei brani eseguiti ieri sera: nella prima parte, una via l’altra, Love And Only Love, Standing in The Light Of Love, Love To Burn e Name Of Love. Quasi una sequenza programmatica, un filo rosso che ha legato tutto il concerto e, alla fine dei conti, tutta l’esistenza e la carriera artistica del musicista canadese. All’amore come tema portante del concerto si è aggiunto il consueto atto di accusa contro la guerra, stigmatizzata da una Living with war minore ma comunque piacevole, ed un inedito “ambientalista” come “Who’s gonna stand up and save the world”, posta a chiusura del concerto, brano potente anche se non esattamente memorabile.
Tuttavia, siamo lontani dal buonismo imperante. La ricerca di Young non è eterea serenità ma lotta costante, prima di tutto con i propri démoni e poi contro il mondo. “Si vis pacem para bellum”, dicevano i latini. E la guerra è quella portata sul palco da Neil Young e dai Crazy Horse.
Il romanticismo di Young è carico di rabbia elettrica, di tensione che si addensa come le nubi del temporale che ha preceduto il concerto e che non ha dato scampo alla gente che assiepava la piccola piazza del borgo piemontese, stipata fino all’estremo. Se qualcuno si aspettava un concerto di un cantautore meditabondo, probabilmente ha sbagliato a comprare il biglietto. I Crazy Horse sono una macchina da guerra, quadrata e che non lascia nulla ai tecnicismi, con Frank “Poncho” Sampedro che incarna l’archetipo di una categoria oramai estinta, quella del “chitarrista ritmico”, e al centro del palco c’è il “loner” canadese con la sua chitarra solista. Pochi chitarristi sono capaci di tirare fuori un suono come quello di Young che, pur non essendo un musicista dalle doti tecniche eccelse, è capace di scuotere nel profondo i suoi ascoltatori.
Lasciati da parte gli influssi vagamente psichedelici che avevano caratterizzato il precedente tour, i Crazy Horse sono tornati a suonare durissimi, riportando alla memoria il suono del memorabile live Weld, che seguiva l’altrettanto aggressivo Ragged Glory (il disco più “saccheggiato” nel concerto di Barolo, con ben tre pezzi eseguiti). Quando parte con gli assoli, Young sembra perdere il senso dello spazio e del tempo, si lascia andare in cavalcate chilometriche – i venti minuti di Love to Burn, forse il punto più alto dello spettacolo, i quasi quindici di una Cortez The Killer lenta e maestosa – che spesso sfociano in ostinati feedback e improvvisi momenti di riflessione, in una centrifuga di suoni e di stati emotivi.
Non tutto è stato perfetto, a dire il vero – una Blowin’ In The Wind acustica forse superflua, visto il repertorio stellare che l’artista canadese può vantare, una Days That Used To Be senza grandi sussulti – ma sono cali di tensione fisiologici in un concerto di due ore e contraddistinto da toni di grande potenza ed epicità, sfociati in una corale Rockin’ In The Free World, in cui la band incita il pubblico a cantare assieme a loro.
Nessuna traccia di On The Beach e dei suoi accenti dolorosi, eppure le tensioni e le domande di Neil Young sono le stesse di quarant’anni fa, diverse nella loro manifestazione perché diversi sono i momenti e le fasi che un uomo attraversa durante la vita. Forse è maturato, forse è rimasto il solito vecchio cavallo pazzo di un tempo, eppure la vitalità di Neil Young è qualcosa di misterioso. Forse i dischi di studio ormai non sono più quelli di un tempo, eppure i suoi concerti di romantica potenza sono ancora capaci di introdurre al mistero del rock’n’roll.