Non so a voi, ma a me Morrissey mancava da morire. Da quando gli Smiths non ci sono più (cioè da un’eternità), con Johnny Marr impegnato in mille differenti progetti, è sempre stato il singer e paroliere del gruppo a portare avanti in qualche modo il concept della band di Manchester. Certo, il Morrissey solista è, per molti aspetti, lontano anni luce dalla sua band madre, ma è innegabile che da sempre, i fan rimasti troppo presto orfani dei loro beniamini, abbiano subito guardato al buon Moz come alla loro ancora di salvezza.
Ultimamente l’attesa cominciava ad essere un po’ troppo lunga. “Years of Refusal”, l’ultimo lavoro in studio, era uscito nel 2009 e recentemente c’era stato un malore e un ricovero in ospedale che non aveva certo reso tranquilli i fan. In mezzo, per fortuna, Morrissey ha continuato a fare tutto quello che ci si aspetta da un personaggio carismatico ed eccentrico quale è sempre stato: ha preteso che la sua autobiografia uscisse per la Penguin, la popolare casa editrice inglese che pubblica solo letteratura (i dati di vendita hanno dato ragione a questa sua megalomania) e si è fatto notare per le solite dichiarazioni estreme (l’ultima, qualche mese fa, secondo cui chi mangia carne commetterebbe un crimine grave quanto la pedofilia).
Ma lui è fatto così, da sempre: o lo ami o lo odi, esattamente come Oscar Wilde, la sua più grande fonte di ispirazione letteraria sin dai tempi degli Smiths.
Adesso, nell’attesa che il suo libro venga finalmente messo a disposizione anche a chi non parla inglese, è arrivato il tanto atteso nuovo album.
“World Peace is None of your Business” è, sin dal primo sguardo, un disco di Morrissey al cento per cento. A cominciare dal titolo, suggestivo, ironico e dissacrante come solo lui sa fare, e da una copertina che si candida immediatamente a diventare la più brutta tra tutte quelle dei dischi usciti quest’anno (a tal proposito, è strano che un artista che ha curato fin nei minimi dettagli gli artwork di ogni pubblicazione della sua band, si sia sempre dimostrato così dimesso nei suoi lavori solisti).
Dal punto di vista dei contenuti musicali, è sempre stato un po’ un terno al lotto. Negli anni il singer mancuniano ci ha davvero proposto di tutto, alternando capolavori a schifezze colossali con una noncuranza disarmante, come se davvero non gli importasse nulla del giudizio del pubblico. D’altronde lo aveva detto lui stesso in una vecchia bside: “If you Don’t Like Me, Don’t Look at Me”. Per fortuna negli ultimi tempi non ci è andata poi così male: dischi come “You Are the Quarry”, “Ringleaders of the Tormentor” e il già citato “Years of Refusal”, sono stati lavori più che buoni, che hanno davvero riconciliato l’ex Smith con la parte più delusa della sua fan base.
Allora, vi starete chiedendo, com’è questo nuovo disco? Iniziamo col dire che non è una schifezza, questo lo possiamo affermare senza troppi problemi. La title track e primo singolo estratto ne costituisce un ottimo biglietto da visita, col suo andamento lento, da tipica ballata alla Morissey, con la sua voce che si staglia inconfondibile a cantare parole che prendono pesantemente di mira la politica di qualunque leader mondiale, volta al profitto e non certo alla pace del mondo. “Ogni volta che voti prendi parte a questo processo” dice ironicamente nel finale, nominando apertamente anche Egitto ed Ucraina, paesi dove si è voluto erroneamente vedere un avanzamento della democrazia.
In “Neal Cassidy Drops Dead” il ritmo si alza, compare una ritmica rocciosa e distorta (forse un po’ troppo, pessima la scelta di produzione, pure affidata ad un nume tutelare come Joe Chiccarelli), per un altro brano molto immediato e orecchiabile che gioca in maniera disinvolta con la beat generation. “I’m Not a Man” è una ballata lenta e dal mood malinconico, che cerca di rievocare le emozioni di “I Know It’s Over” non riuscendo però quasi per nulla nell’intento: ci sono momenti in cui l’intensità è altissima ma nel complesso dura troppo per poterla apprezzare davvero. Il testo, a scorrerlo tutto, è decisamente acuto: se un uomo deve identificarsi con i vari stereotipi proposti oggi dalla società, dice Moz, allora io non sono un uomo ma, aggiunge con un tocco di pungente ironia alla Wilde, sono molto di più.
“Istanbul” è decisamente meglio riuscita, con le sue influenze mediorientali e un andamento ipnotico che ricorda leggermente quella perla di “How Soon Is Now”.
Anche “Earth Is the Loneliest Planet” è un pezzo da novanta: chitarra in stile flamenco, linea vocale bellissima, un testo che torna su uno dei temi preferiti da Morrissey, almeno nei primi anni, quello della solitudine: “La terra è il pianeta più solitario di tutti/giorno dopo giorno dici: un giorno, chissà/Ma sei nel posto sbagliato/e hai la faccia sbagliata/e gli esseri umani non sono davvero umani/E c’è sempre una ragione per cui sei rifiutato/e ti incolpano sempre: tu, tu, tu”.
Ci sono anche dei bei pezzi rockeggianti e dal sapore pop come “Staircase at The University” (che condanna la pressione che i genitori impongono su una ragazza per la riuscita dei suoi studi), “Kick the Bride Down the Aisle” (sarcastica, violenta e velata di humor nero) e “Kiss Me a Lot” (spensierata canzone d’amore adolescenziale). Purtroppo però non tutto funziona a dovere: brani come “Smiler With Knife”, “Mountjoy” e la conclusiva “Oboe Concerto” sembrano più che altro dei riempitivi e risultano parecchio noiosi.
Esiste anche una versione deluxe con sei brani in più ma di questi, forse la sola “Art Hounds” risulta davvero memorabile.
Nel complesso, comunque, il livello del songwriting rimane piuttosto alto. È noto che Morrissey, non suonando nessuno strumento, debba avvalersi di apporti esterni in sede di scrittura ma che siano poi le linee vocali (di cui si è sempre occupato personalmente) a costituire il tratto distintivo di ogni sua canzone. Sempre poco importanti gli arrangiamenti, che anche in questa sede non fanno gridare al miracolo, nonostante la band che lo accompagna sia ormai abbastanza stabile. Anche i testi, probabilmente, non sono così ispirati: ci sono delle belle idee, alcune immagini davvero geniali ed azzeccate, ma talvolta si respira un’aria di deja vu e l’impressione è che questa volta si sia voluto più che altro rispondere all’esigenza di riempire un foglio. Un disco che ha poche pretese di confezione e di presentazione e che vive esclusivamente della voglia del proprio autore di poter tornare a dire qualcosa di importante su di sé e sul mondo che lo circonda. Non a caso, “World Peace…” ha debuttato al secondo posto nelle classifiche di vendita in Gran Bretagna. Si può dire quel che si vuole, ma Morrissey rimane e rimarrà sempre un’istituzione, una delle figure più importanti ed influenti della storia del rock. Lo aspettiamo in tour da queste parti, ovviamente.