Devo dire la verità, il mio rapporto con Bob Dylan in sede live non è mai stato dei più stretti. Ho visto alcuni suoi ottimi concerti negli anni passati ma poi, dopo un’esibizione a Parma nel 2006 che mi era sembrata alquanto deludente, mi era un po’ passata la voglia. 

Ero caduto anch’io nel tranello in cui cascano molti: la voce non c’è più, la band è spesso imprecisa, le canzoni sono totalmente stravolte e a meno che tu non sappia i testi a memoria è impossibile riconoscerle, lo show è nel complesso troppo corto. Cose così. 



Ho preferito rifugiarmi nei dischi in studio e, soprattutto, nelle registrazioni (ufficiali e non) dei periodi in cui era realmente uno dei più grandi performer rock del mondo. L’ho ascoltato tanto, negli ultimi anni, ma di persona non ci sono andato più. Neppure quando, a fine 2012, è uscito “Tempest”, probabilmente il suo miglior lavoro dai tempi di “Love and Theft”, forse addirittura superiore, per alcuni episodi. E quando, nel novembre dello scorso anno, Dylan suonò per tre sere consecutive agli Arcimboldi di Milano, ho preferito starmene a casa: i prezzi dei biglietti erano troppo alti e temevo seriamente una performance sotto tono, che mi avrebbe fatto rimpiangere amaramente i soldi spesi. 



Poi è successo quello che tutti sappiamo: tre concerti fenomenali, una band in forma strepitosa, un Dylan in condizione eccellente, recensioni entusiastiche pressoché ovunque. Mangiarmi le mani è stata l’unica cosa che potessi fare. 

Così, quando i nostri destini si sono incrociati nuovamente in occasione del tour australiano, non ho potuto più resistere. La sponda orientale del Pacifico è sempre stata sensibile alla musica di Dylan e quest’anno lui ha deciso di ricompensarla in pieno: saranno infatti diciannove gli show in programma in Australia e Nuova Zelanda tra agosto e settembre. Abbandonate le grandi arene, è ormai il turno dei teatri: una scelta che, se forse da un lato rispecchia il calo di interesse che la sua musica sta sperimentando, dall’altro le ha finalmente conferito la dimensione ideale, decisamente più adatta alle atmosfere musicali che con la sua band sta portando in giro in questa ultima leg del Neverending Tour. 



Il Palais Theater, nello specifico, è uno dei più vecchi edifici di Melbourne ed è situato nel suggestivo quartiere di St. Kilda, affacciato sull’oceano, vicino ad una spiaggia dove al crepuscolo non è raro incontrare i pinguini che abitano queste zone, mentre escono dall’acqua per andare a passare la notte al riparo degli scogli. Insomma, anche la location vuole la sua parte! 

Questa è la prima delle quattro date che Dylan terrà nella capitale del Victoria: segno che, se anche le venue che riempie si stanno rimpicciolendo, il suo pubblico non ha smesso di essere numeroso e appassionato. 

All’interno l’atmosfera è rilassata, intima e raccolta, il palco e le decorazioni sembrano sposarsi appieno con l’aspetto coreografico dello show che stiamo per vedere. 

Inizio secondo tabella di marcia, alle 20 spaccate (qui è così. Gli orari sono affissi all’ingresso e non si sgarra mai di un secondo) con la band che si presenta in scena e suona qualche accordo di riscaldamento, prima che lo stesso Dylan prenda possesso del centro dello stage. Vestito come sempre di nero ed elegantissimo, cappello da cowboy bianco a coprirgli quasi completamente il volto, Robert Zimmermann non ha bisogno di sorridere, salutare o dire qualche parola al pubblico: la sua sola presenza sul palco è in grado di comunicare più di mille discorsi. 

L’inizio è affidato a “Things Have Changed”, uno dei capolavori del passato recente, che gli ha anche fruttato l’unico Oscar della sua carriera, per la colonna sonora del film Wonder Boys, nel 2001.

Segue una meravigliosa versione di “She Belongs to Me”, che sarà anche l’unico brano, bis esclusi, a provenire dagli anni Sessanta, un periodo della sua carriera che fino a pochi anni fa era decisamente saccheggiato dal vivo. In queste prime due canzoni Dylan è in piedi, al centro del palco e canta senza suonare la chitarra. È una cosa che in moltissimi vorrebbero ancora vedergli fare e che fino a qualche anno fa si concedeva per tre o quattro brani a sera. Non più oramai, sia colpa dei problemi alla schiena che lo affliggono da tempo o per la semplice ritrosia che ha sempre avuto a conformarsi ad un modello predefinito. L’armonica però è ancora ben presente e nei rari momenti in cui la sfodera è ancora in grado di evocare visioni meravigliose. 

Quando si siede al piano, per “Beyond here Lies Nothing” (forse il pezzo migliore del deludente “Together Through Life”) capiamo che anche questa sera la setlist non dovrebbe subire variazioni. Questo è un punto che ha suscitato roventi discussioni in seno alla fan base più affezionata di Dylan ma che alla lunga sembra stia pagando davvero. Negli ultimi trent’anni l’artista del Minnesota era celebre per le sue scalette “impazzite” che variavano completamente di sera in sera e che spesso e volentieri variava ed improvvisava sul palco. Una cosa grandiosa, per uno con un repertorio sconfinato alle spalle e con dei fan spesso più preparati di lui sulle canzoni. Ma c’era anche il rovescio della medaglia: chiedere alla band di memorizzare e prendere confidenza con più di quattrocento canzoni (per non parlare delle cover che spesso amava inserire) era decisamente una prova titanica e se certe esecuzioni più uniche che rare mandavano in estasi il pubblico più affezionato, non giovavano certo alla omogeneità e alla qualità musicale dello show. 

Dopo l’uscita di “Tempest”, il Never ending Tour è ripartito con questa significativa novità: tranne alcune date scelte secondo criteri che non conosceremo mai (chi c’era a Roma lo scorso autunno se lo ricorda bene!), la scaletta dei concerti non è quasi mai mutata e lo spettacolo è quindi identico sera dopo sera, anche per quanto riguarda le date consecutive nella stessa città. Una decisione che va sicuramente a discapito dell’effetto sorpresa e che azzera gli animati “toto canzone” nei forum specializzati, ma che ha fatto impennare radicalmente il livello qualitativo delle performance. 

Al sottoscritto bastano infatti i primi due pezzi per capire che chi c’era a Milano non aveva sognato. La band questa sera suona magnificamente, la sezione ritmica di George Receli e del fedelissimo Tony Garnier (probabilmente il musicista che ha suonato con Dylan per più anni consecutivi) non perde un colpo e la chitarra ritmica di Stu Kimball, l’altro veterano, è una presenza costante anche se la proverbiale riservatezza del musicista fa sì che quasi non ti accorgi di lui. Ma è probabilmente Charlie Sexton il vero elemento chiave: da quando è ritornato in organico il sound complessivo ne ha beneficiato ed è lui, coi suoi fraseggi chitarristici, a dotare ogni singolo brano della sua esclusiva personalità. Accanto a lui, Donnie Herron, che si divide tra pedal steel e violino ed è anch’esso fondamentale negli arrangiamenti. Non un gruppo di virtuosi, ma tutti musicisti di gran classe, sotto i cui sapienti tocchi i brani scelti per lo show prendono nuovamente vita, alcuni valorizzando ancora di più la versione originale (è il caso soprattutto dell’ultimo album), altri presentandosi in una delle numerose vesti inedite che il suo autore ama farle indossare. 

Poco rock, ad ogni modo. Le atmosfere retro di cui “Tempest” è ammantato vanno ad avvolgere un concerto che sa di volta in volta di swing, di country, di blues e di jazz e che, complici anche le luci bassissime, sembra suonato in un fumoso locale di Nashville o di New Orleans, piuttosto che in un elegante teatro del sud dell’Australia. 

E che dire di Dylan? Pare che il suo stato di grazia continui perché questa sera è inarrivabile. Probabilmente è perché ha capito che sono i brani degli ultimi vent’anni quelli che gli escono meglio, ma questa sera la sua voce è meravigliosa. Certo, chi ha come unico termine di paragone i dischi e i live del decennio d’oro non potrà mai capire, ma Dylan canta al meglio della sua età e delle sue possibilità odierne, donando a ogni parola una vita tutta sua, sputando fuori i versi più duri, declamando quelli più dolci, ed è evidente che è ancora il più grande narratore musicale di tutti i tempi.

Questa sera, forse per la prima volta, ho capito perché uno come Greil Marcus ha potuto scrivere pagine e pagine descrivendo la sua voce. Davvero emozionante. Anche la sua prestazione al pianoforte (strumento col quale accompagnerà più della metà dello show) è maiuscola. Rispetto all’ultima volta che l’ho visto (dove comunque il piano era elettrico), pare molto più sicuro ed amalgamato con gli altri musicisti, così che lo strumento, quando viene usato, contribuisce veramente all’architettura strumentale del pezzo. 

Si potrebbe anche finire qui. Se non fosse che poi ci sono state le canzoni e che ognuna di esse è stata un mondo a parte, pur all’interno di uno spettacolo mai così omogeneo e coeso. “Workingman Blues #2”, che è andata a rimpiazzare “What Good Am I?” in queste date estive, è un autentico gioiello, con Dylan che tira fuori probabilmente la più bella esecuzione vocale della serata. “Waiting for You” è un’altra perla ammantata di romanticismo, mentre “Duquesne Whistle” sorprende per il suo andamento quasi da valzer e la sua veste completamente diversa dall’originale. “Tangled up in Blue” è accolta da un boato e presenta un testo inedito, che se non erro è stato tirato fuori in tempi recenti. Una canzone di livello assoluto, una delle sue migliori ma che non è stata una delle cose più grandi sentite questa sera. 

Il momento topico si raggiunge con “Pay in Blood” e “Love Sick”: due canzoni diverse (la prima dal nuovo album, la seconda che apriva il capolavoro “Time Out of Mind” del 1997) ma accomunate sul palco da un’atmosfera cupissima e affilata come un coltello, con Dylan che fa quasi paura quando canta “I’m sick of love, I’m so sick of it”. Letteralmente da brividi. È la fine del primo set e la standing ovation da parte del pubblico (sempre compostissimo ma decisamente caloroso) è pienamente giustificata. 

I venti minuti di pausa tra un set e l’altro sono ormai consuetudine di quest’ultima parte del tour. Può sembrare un calo di tensione ma in realtà è una decisione giusta: permette a Dylan, che non è  più un ragazzino, di riposarsi e ci offre anche dei concerti che sono mediamente più lunghi di quelli di qualche anno fa. 

Si riparte con “High Water”, altra magistrale esecuzione di un brano tra i più ispirati tra quelli scritti negli anni Duemila. Poi una commovente “Simple Twist Of Fate”, che è senza dubbio lontana dai demoni della fine del suo matrimonio con la prima moglie Sara Lowns, ma che non è meno triste e malinconica. Anche qui, un’interpretazione vocale che definire superlativa è poco. Poi arriva “Early Roman Kings”, che mi è sempre sembrato un brano debole e che dal vivo migliora ma non di molto. Al contrario, “Forgetful Heart”, che pure viene da un disco non eccelso, si trasforma e il tappeto orchestrale di violino e contrabbasso la rendono sublime. Anche “Spirit on the Water” è ben lontana dalla versione ascoltata nel periodo di “Modern Times” ed è sicuramente più godibile. 

Poi, a chiudere, una triade pazzesca tratta dal nuovo disco: “Scarlet Town”, un western oscuro come un romanzo di McCarthy, “Soon After Midnight”, una serenata romantica e struggente e “Long and Wasted Years”, la confessione amorosa di un uomo non più nel fiore degli anni, un brano nel quale c’è molto di quello che Dylan ha vissuto sulla sua pelle nei suoi anni di musicista e di uomo innamorato e che questa sera è di una bellezza inaudita, con la sua voce che riesce quasi a materializzare quello che sta cantando. 

È la fine, per lo meno del set regolare. I bis sono due e sappiamo già quali saranno: il primo è “All Along the Watchtower”, rabbiosa e tiratissima, con Dylan che la canta al piano e con un filo di voce, quasi in contrasto con l’energia sprigionata dagli strumenti. Poi “Blowin’ in the Wind”, in una versione gradevole ma certo non imprescindibile. Ci sarebbero stati molti modi per concludere ma questo è quello che lui ha scelto da molti mesi e non possiamo certo volergliene per questo. “Like a Rolling Stone” è la grande assente ma si sapeva. Cosa avrà spinto Dylan ad accantonare il suo brano più famoso è un mistero suggestivo ma, come molti altri che lo riguardano, impossibile da svelare. 

Dopodiché i sei si fermano per qualche minuto a raccogliere gli applausi scroscianti dell’intero teatro. Lo sguardo dietro al cappello non si vede ma siamo sicuri che era uno sguardo compiaciuto. Non potrebbe essere altrimenti, dato che va in giro ininterrottamente da venticinque anni per i palchi di tutto il mondo e che anche questa sera ha dato tutto sè stesso. Anche stavolta, non servono ringraziamenti o parole affettuose: in quei due minuti passati in piedi a guardare la platea, c’è tutto quello che c’era bisogno di dire. 

Un concerto strabiliante, che mi riconcilia con un artista che non ritenevo più in grado di regalare emozioni di tale livello. Chiedo venia e spero che ripassi presto anche dall’Italia.