Tarda estate, un’estate che in un certo senso non c’è nemmeno stata. Almeno, non per chi scrive, costretto a rimanere in una sabauda città del Nord, dove alle cinque precise, peggio che l’ora del tè per un inglese, arrivava il monsone a scaricare acqua sul grigio delle strade. Per uno costretto a stare chiuso in casa da solo, oltre che il dovere, che cosa resta? Spulciare lo scaffale dei cd e cercare conforto nella musica.
I cd affastellati uno sull’altro cominciano a diventare tanti. La scelta si fa difficile, ogni volta più difficile. Poi però va a finire che un disco tira l’altro e si creano piccole storie, gli album si susseguono uno dietro l’altro come se seguissero un filo rosso. Incomprensibile logicamente ma presente, dannatamente presente. La sua logica? Difficilmente individuabile, se non per mere ragioni emozionali. Ecco, il termine emozionale è un termine che un sedicente “critico musicale” (lungi da me quest’espressione!) non dovrebbe mai utilizzare. Ma questo non è un articolo di critica in senso stretto, quanto piuttosto un invito alla scoperta, un invito al perdersi nella bellezza. Per cui, sì, anche l’emozione ci può stare in un racconto del genere.
Ciance a parte, è capitato che il filo rosso del giorno si dipanasse seguendo le tracce di un certo “cantautorato” americano. Gli anni Zero (e gli anni Dieci), la cui frammentazione musicale non ha precedenti nella storia del rock, sono stati e sono una fucina quasi inesauribile di quelli che una volta si chiamavano “singer-songwriters”. Facile, direte voi. Una volta, citando Lester Bangs, “qualsiasi folk rocker che valesse il prezzo della propria armonica a bocca era preso dalla dylanite e cercava di vedere quante sillabe gli riusciva di ficcare in ogni contorto couplet”. Però, almeno il prezzo della loro armonica lo valevano. Ora basta un computer, una chitarra e chiunque si sente in grado di pubblicare un disco. Peccato che siano ben pochi quelli che possano permetterselo veramente. La formula cantautorale, di solito, è basata su una formula canonica di tre accordi o poco più. La ripetitività, quindi, è praticamente scontata. Eppure…
Eppure capita che ci sia qualcuno che da quei tre accordi abusati sappia tirare ancora fuori delle grandi canzoni. In questo senso, una canzone è un piccolo miracolo di grazia, quasi soprannaturale. E questo avviene ancora oggi. Capita, ogni tanto. Ma quando capita è come se si schiudesse un forziere che sembrava inviolabile. Inspiegabile come capiti ancora oggi. Davvero inspiegabile. Così, uno dopo l’altro si sono alternati sul lettore cinque dischi, uno più bello dell’altro, in cui quei tre accordi o poco più diventano grandi. Canzoni che non cambiano il mondo ma che possono cambiare una persona, magari raddrizzandogli una giornata che sembrava irrimediabilmente storta.
Il primo disco si chiama “Ghost repeater”, è uscito nel 2006 ed il suo autore si chiama Jeffrey Foucault. Una voce chiara, pochi strumenti, chitarre acustiche, a volte qualche scorcio di elettrica (Bo Ramsey, uno dei migliori chitarristi in ambito di musica roots americana, che è anche il produttore del lavoro) e una canzone più bella dell’altra. A volte qualche venatura bluesy ma anche vagamente soul impreziosisce brani lineari eppure mai scontati, grazie al senso della melodia fuori dal comune di Foucault, che in ballate come la title track iniziale o la malinconica One part love è capace di squarciare l’attenzione dell’ascoltatore e cullarlo in una malinconica dolcezza. Spiace che Foucault non sia più riuscito a ripetersi sui livelli di questo lavoro, la cui semplice profondità ne fa uno dei migliori lavori degli ultimi anni, in ambito di cantautori.
Nemmeno il tempo di concludere “Ghost repeater “che lo sguardo si posa su un altro disco, altrettanto bello e sconosciuto, almeno qui in Italia. Si tratta di “Tea & Sympathy”, di Bernard Fanning, musicista australiano già leader degli ottimi Powderfinger, anch’esso uscito nel 2006. In Australia ha venduto diverse centinaia di migliaia di copie, qui da noi praticamente non l’ha ascoltato nessuno. Ed è un vero peccato, perché poche volte si è sentito negli ultimi anni un disco così “passatista” eppure così fresco e grintoso. Di colpo, fin dal primo pezzo, sembra di essere catapultati nella California di metà anni Settanta, fra Crosby, Stills, Nash & Young e Jackson Browne. In alcuni pezzi, come nella strepitosa Hope and validation, sembra addirittura di risentire quello sgangherato combo di folk-rock, più americano degli americani, che caratterizzò il suono dei primi dischi solisti di Rod Stewart. Oltre al suono, peraltro curatissimo, caldo e avvolgente, ci sono anche una manciata di canzoni che si attaccano in testa e non sono più capaci di uscire. Avete presente un disco celebrato come Born and raised di John Mayer? Bé, il suono è quello lì. Ma le canzoni, canzoni così (prendete Wish you well o Sleeping Through o ancora Believe), John Mayer non riuscirà a scriverle in nemmeno quattordici vite.
Su questo giudizio, così impavidamente tranchant (e sulle deliziose note acustiche di Watch over me) Tea & Sympathy volge alla fine. E che cosa mettiamo su adesso? Facile. “Hello Starling” di Josh Ritter!
Uscito nel 2003 tramite canali indipendenti e poi ristampato un paio d’anni dopo (con grande successo di pubblico soprattutto in Irlanda, dove Ritter è una specie di eroe), Hello Starling è letteralmente un gioiello. Una canzone più bella dell’altra, tutte infilzate da uno spirito (e anche da un gusto per gli arrangiamenti) molto dylaniano e da un gusto da raccontatore di storie molto più spiccato rispetto ai suoi omologhi coetanei. L’incipit è folgorante, con l’uno-due della dolcissima Bright smile, tenero ed etereo bozzetto acustico, e del magnifico crescendo sorretto dall’organo hammond di Kathleen (meravigliosi i versi iniziali “Tutte le altre ragazze sono stelle/Tu sei un aurora boreale”). Il resto è un susseguirsi di racconti acustici e di smosse più rock, i cui inserti di organo – tratto caratterizzante del disco – a momenti sembrano inseguire quel “sottile selvaggio suono al mercurio” che Dylan cercava di ottenere in Blonde on blonde. Certo, non siamo a quei livelli di magnificenza musicale. Certo è che, se dovessimo fare una summa dei dischi da salvare del nuovo millennio, questo entrerebbe di diritto fra le prime posizioni.
Dopo un viaggio così intenso, cosa ci vuole per riprendersi? Facile: “Mission Bell” di Amos Lee, anno di grazia 2011. In America lo paragonano al miglior James Taylor. Lui fa spallucce e, con la timidezza quasi patologica che lo caratterizza, si limite a scrivere grandissime canzoni, come quelle di questo disco, un capolavoro di equilibrio fra nostalgiche ballate acustiche come El camino o Clear Blue Eyes (per le quali si scomodano a duettare con lui perfino due pezzi da novanta come Lucinda Williams e Willie Nelson), batterie spazzolate (d’altronde il disco è uscito per la Blue Note, storica etichetta jazz) e momenti decisamente più mossi, come la tesa Jesus, vera e propria preghiera in chiave soul, in cui Lee sfodera un timbro negroide niente male, o la ballata country-gospel Cup of sorrow. Non c’è un pezzo debole in tutto il disco (forse solo la meditabonda Hello Again, fin troppo smaccatamente sentimentale), aperto e chiuso dalle atmosfere della già citata El camino, che nella versione conclusiva in duetto con Willie Nelson diventa una nostalgica e polverosa elegia del confine, quasi struggente nella sua malinconia.
Il viaggio fra i cinque dischi di oggi si conclude poi con l’omonimo disco dei Burlap To Cashmere (anch’esso del 2011), creatura costruita a immagine e somiglianza del suo leader, il cantautore greco-americano Steven Delopoulos. Spesso rubricati frettolosamente come “Christian music” o come epigoni di Cat Stevens (cui Delopoulos deve molto a livello di influenza vocale), i Burlap To Cashmere hanno saputo mettere insieme uno dei dischi più freschi e miracolosi sentiti negli ultimi anni, uno splendido impasto prettamente acustico fra la grande tradizione americana, il folk, il country, il gospel, e le ritmiche irregolari e asimmetriche tipiche della musica mediterranea (e greca in particolare). Il risultato è una serie scoppiettante di canzoni. Provate a stare fermi ascoltando brani come Santorini o Don’t forget to write o indifferenti di fronte a brani come Tonight e Orchestrated love song, che sembrano opera di un Paul Simon andaluso. Grande musica dall’inizio alla fine, prodotta in maniera scintillante da un maestro della consolle come Mitchell Froom – già partner di Paul McCartney, Elvis Costello e Tom Waits, fra gli altri – e suonata col cuore, in un viaggio intercontinentale che si chiude con la vera e propria preghiera di The other country, il solito giro armonico sentito mille volte da People Get Ready in poi eppure vivo, vitale e sorprendente come non mai.
E su The Other Country si conclude il viaggio di oggi, con la speranza che anche uno solo di questi cinque dischi, anzi, anche una sola canzone, possa illuminarvi la giornata. Perché è per questo che vale ancora la pena provare a scrivere canzoni. Per illuminare la giornata e la vita a chi le ascolta. Che si riesca o meno è un altro discorso. Loro però ci sono riusciti, e a noi non resta che rimanere in ascolto ed in contemplazione della bellezza.