Giovedì scorso Vinicio Capossela è stato in concerto a Torino, nella splendida cornice della Reggia di Venaria, accompagnato dall’ennesima formazione diversa. Questa volta il ruolo di backing band è toccato alla Banda della Posta, formazione irpina composta da musicisti che nei tempi che furono erano specialisti della “musica da sposalizi”, unendo le tradizioni dell’Italia meridionale a ritmi ballabili in voga negli anni Cinquanta e Sessanta. Il concerto è stato… ALT!
C’è un piccolo problema.., chi scrive al concerto non c’è andato, causa motivi personali. E questa è una non-recensione di un concerto. Strano? Può essere. Ma la recensione di un’assenza ad un concerto potrebbe essere a buon diritto un fenomeno tipicamente caposseliano. Ma perché questa non-recensione? Perché quella sera, il posto del concerto l’ha preso il ricordo e la mente è tornata all’anno giubilare 2000, anno in cui usciva Canzoni a manovella, di certo uno dei dischi italiani più importanti e belli degli ultimi vent’anni. C’era una canzone in quel disco, che si chiamava Signora luna, ed era una desertica serenata elettrica, dominata dalla chitarra di Marc Ribot – il musicista che col suo tocco ha caratterizzato più di ogni altro il suono di Tom Waits nel suo periodo più creativo e sperimentale – e in cui Capossela dava sfogo ad una delle sue mille anime, quella più malinconica e contemplativa, talvolta quasi disperata.
Mille anime, già. In quest’ultimo tour, come abbiamo detto, Capossela era accompagnato dalla Banda della Posta. Ma sono mille le sue incarnazioni musicali e istrioniche negli ultimi anni. L’abbiamo visto circondato da un ensemble di “tex-mex lucano” dividere il palco con il cantastorie Matteo Salvatore, l’abbiamo visto al Premio Tenco vestito di una camicia di forza e accompagnato da un allucinato quartetto d’archi mentre declamava una poesia di Michelangelo Buonarroti, da lui musicata per l’occasione. Ancora, l’abbiamo scorto fra le casse del porto del Pireo alle prese con la musica rebetika, con un orchestrina balcanica, in concerto assieme ai Calexico, ad Umbria Jazz con un Marc Ribot scatenato alle chitarre. E via dicendo. E siamo certi che anche ieri sera a Venaria lo spettacolo sia stato generoso e di ottima fattura.
Forse è proprio la troppa generosità e la vulcanicità dell’artista nato ad Hannover a costituirne il vero limite artistico: a volte è l’istrione che ha il sopravvento sul musicista e autore. Era il limite di un disco come Marinai, profeti e balene, oltretutto lungo all’eccesso, dove le velleità letterarie e narrative soffocavano la costruzione delle canzoni dando luogo ad un atteggiamento prolisso e talvolta magniloquente. Eppure, come d’incanto, fra i solchi sbucava un gioiello prezioso come Le pleiadi, un capolavoro d’elegia e d’attesa, costruito su una scarna linea di pianoforte e rarefatti tocchi orchestrali, con un’apertura melodica che riporta alla tradizione della canzone napoletana (non a caso, qualche anno prima l’artista aveva reinterpretato per solo voce e piano il classico Core ‘ngrato), riportando alla luce un talento compositivo spesso sepolto dietro un atteggiamento da poseur.
Forse è proprio in questi frangenti che Capossela raggiunge le sue vette artistiche. Nel suo peregrinare discografico (nove album in studio in ventiquattro album, dalle ballate jazzate di All’una e trentacinque circa alle rivisitazioni rebetike di Rebetiko mou), qua e là affiorano momenti di rara intensità.
“Stanco e perduto ma ero allegro quando me ne andai di casa e certe stelle splendevan forti a far luci e ombre sul mio cammino. Perso e solitario non riesco a ricordare le tristi notti degli occhi e le corse dietro alla luna, fuggite via.” Così iniziava Stanco e perduto, uno dei brani più belli e nascosti del debuttoAll’una e trentacinque circa, un brano che col senno di poi potrebbe essere considerato come un manifesto della irrequietezza artistica di Capossela, quell’irrequietudine che lo avrebbe portato negli anni a non fermarsi mai, a cercare sempre – come Ulisse – di varcare le colonne d’Ercole della creatività.
Stanco e perduto è uno dei tanti bozzetti, delle tante storie che Capossela è capace di raccontare, come la storia tragica e dolcissima dei due amanti perduti di Ultimo amore (dal secondo album Modì), i racconti surreali eppure nostalgici dei vecchi pianoforti abbandonati in un deposito durante la guerra de I pianoforti di Lubecca (da Canzoni a manovella) e dei calzini spaiati de Il paradiso dei calzini (da Da solo= o il ritratto di un’amicizia tanto grande quanto spiantata fissato in musica Dov’è che siam rimasti a terra Nutless (da Ovunque proteggi).
Altrove, invece, le canzoni di Capossela più che storie sono capaci di diventare resoconti di vere e proprie sedute analitiche, in cui l’artista scava nelle profondità del cuore dell’uomo con una veemente delicatezza, dagli intrecci di pianoforte che sostengono una incantata Solo per me (ancora dall’albumModì), la cui progressione armonica assolutamente anticonvenzionale non fa altro che sottolineare con ancor più forza lo struggente succedersi delle immagini liriche, per arrivare ad una delle sue canzoni meno note eppure più belle, Camminante (da Camera a sud), un inno alla libertà e alla perdita, una ballata zingara (i camminanti sono infatti un gruppo rom presente in alcune zone della Sicilia), con la musica costruita inizialmente sul tipico schema della ballata ma che poi si apre ad echi etnici imprevedibili. “Toglietemi passioni, amici, il riso del saluto, ma non si può perdere quello che mai in fondo si è tenuto. Non si può perder niente se niente si è mai avuto.”
Così, mentre Capossela l’altra sera a Venaria rivisitava per l’ennesima volta – presumibilmente, visto che noi non c’eravamo – il proprio repertorio dandogli una nuova veste, stavolta più popolaresca, qualcuno, non troppo distante, si perdeva nella riscoperta delle sue canzoni più vecchie e più profonde. E a concludere il cerchio, come un colpo basso, è arrivata a un certo punto anche Pena dell’alma (daOvunque proteggi). Qualcuno potrà obiettare che, in fondo, non si tratta neppure di una canzone scritta dallo stesso Capossela ma soltanto di una traduzione di un vecchissimo classico della tradizione nortenamessicana, interpretato – fra i tanti – anche da Los Lobos. Eppure, se c’è un ritratto della malinconia, della “nostalgia di un Bene assente” – per usare la definizione di San Tommaso d’Aquino – è proprio descritto da questa canzone, dalle sue parole e dalla sua melodia, sospesa fra pochi accordi di chitarra e pianoforte.
“Che farò lontan da te pena dell’anima/senza vederti, senza averti, nè guardarti/anche lontano non vorrò dimenticarti/anche se è ormai impossibil il nostro amor.
Come levare via il profumo al fiore?/Come togliere al vento l’armonia?/Come negar che ti amo vita mia?/Come togliermi in petto questa passion?
E a veder che crudel destino ora ne viene/ma che l’ombra ora ci prenda più mi addolora/Il mio cuore mi dice che non può seguirti ancora/e nemmeno questa angustia sopportar.
Come levar alle stelle via il bagliore?/Come impedir che corra il fiume al mare?/Come negar che soffre il petto mio?/Come levar dall’anima questa passion?”
Così, fra le sfuriate elettriche, gli atteggiamenti da veglione, le boutade da capitano di una nave alla deriva, i frappè a base di Tom Waits e di musiche dell’Italia meridionale, saremo grati a Capossela se ancora ed ancora sarà capace – almeno ogni tanto – di lasciare da parte il suo lato più istrionico e tornerà a toccare quelle corde elegiache e scavare dentro al suo ed al nostro cuore e a scrivere canzoni vere, profonde, capaci di commuovere. Perché è di commozione che abbiamo tutti bisogno, di questi tempi.