Difficile trovare, almeno negli ultimi vent’anni, una band come i Counting Crows. Umorali tanto quanto il loro leader, cantante, pianista e autore di gran parte delle loro canzoni Adam Duritz, non si può certo dire che siano un gruppo prolifico. In ventidue anni di attività la loro discografia era finora limitata a cinque dischi di inediti, un album di brani altrui in studio e quattro dischi dal vivo (sei, contando il cd contenuto nella versione lusso del loro disco d’esordio ed un ulteriore registrazione dal vivo resa disponibile solamente in rete). Anomali è dir poco. Già, perché raramente degli artisti erano stati capaci di mettere d’accordo il grande pubblico e la critica come i Counting Crows.
Ma facciamo un salto all’indietro. Anno 1992, la Geffen Records è la casa discografica più importante del momento. Nella scuderia di David Geffen (che già negli anni Settanta aveva scoperto personaggi come Jackson Browne e gli Eagles) sono alloggiati gli artisti più importanti del momento. Nirvana, Sonic Youth, Teenage Fanclub, insomma, la crema di quella scena “alternativa” che da alternativa si stava trasfigurando in “dominante”. A Geffen erano arrivate delle registrazioni informali e scarne, ancora acerbe, eppure qualcosa pulsava in quella musica, in quelle canzoni dalle liriche così torturate e sofferte.
“Esco dalla porta sul davanti come un fantasma nella nebbia, dove nessuno fa caso al contrasto del bianco sul bianco. E fra la luna e te gli angeli hanno una visuale migliore su quella che è la vacillante differenza fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Cammino nell’aria, in mezzo alla pioggia, attraverso me stesso e poi ancora indietro. Dove? Non lo so… Maria dice che sta morendo, la sento piangere dietro la porta. Perché? Non lo so…”
Che botta che deve essere stata, per David Geffen (o chi per lui), sentire l’incipit di Round Here, la canzone che sarebbe finita all’inizio del disco d’esordio dei Counting Crows. “August and everything after” è un disco per cui la parola capolavoro non è affatto sprecata, un viaggio fra Van Morrison e i Replacements, fra The Band e i REM, passando per Bob Dylan e il suo Mr. Jones. Il viaggio, la solitudine, la malinconia, una donna che invece di decidere, di affrontare la vita se ne sta su una collina a cercare di disvelare il futuro contando i corvi nel loro volo.
Il destino di August and everything after è quasi paradossale, fin dal titolo, tratto da una lunghissima canzone che, in sede di produzione, fu esclusa dall’album, i cui versi sono riportati in copertina (poi pubblicata come b-side del singolo Hanginaround, qualche anno dopo, in una versione dal vivo per sola voce e piano). Nonostante il solipsismo delle canzoni e delle tematiche trattate (ma grazie anche alla produzione di T-Bone Burnett ed a una capacità di sciorinare melodie perfette nella loro costruzione), fu un successo enorme. Quasi dieci milioni di copie vendute nel mondo e uno status di superstar. E nel frattempo il capobanda, Adam Duritz, cosa fa? Cavalca il successo? No. Si defila, rinnegando quasi le sue radici e dicendo che lui, no, The Band e Van Morrison non li aveva in mente, che a lui interessano gli Husker Du e i Sonic Youth. Che faccia tosta. Una faccia tosta coerente però (ecco un altro paradosso), al punto che il successivo album Recovering the satellites, che vedeva la luce nel 1996, faceva registrare un tasso di elettricità nettamente più elevato, pur restando immutata la qualità delle canzoni.
I capovolgimenti di fronte non erano finiti. Sarebbero seguiti altri dischi, tutti diversi eppure con l’immutabile marchio di fabbrica della voce di Duritz e della riconoscibilità della sua scrittura. This desert life, il terzo grande disco di fila – dove il leader giocava a fare un po’ Morrison e un po’ Dylan in una interminabile Mrs. Potter’s Lullaby che pareva una versione aggiornata di And the healing has begun (casa Van Morrison) e di Lily, Rosemary and the Jack of Hearts (casa Dylan) – poi Hard candy, il più pop e patinato del lotto ma con una memorabile title track ed un sentito omaggio a Richard Manuel (il pianista di The Band) a risollevarne le sorti, lo schizofrenico Saturday Nights & Sunday Mornings, in cui si alternavano una prima parte iperelettrificata (l’iniziale e urticante 1492 è una tirata punk come poche se ne sono sentite negli ultimi quindici anni) e una sonnacchiosa seconda parte prevalentemente acustica. Infine, ed è storia recente, il passo dell’autoproduzione e dell’autodistribuzione, con Underwater sunshine, un tributo del gruppo alle loro principali passioni musicali, da Gram Parsons a Dylan, dai seminali Big Star e Teenage Fanclub agli insospettabili Fairport Convention.
Ed ora, a sei anni di distanza dal precedente, ecco un nuovo album di inediti, Somewhere Under Wonderland. Sei anni fra un disco e l’altro sono tanti e più il tempo passa più è lecito aspettarsi qualcosa di importante, specie da una band come i Counting Crows. E però alla risposta “qualcosa è cambiato?” la risposta è immediata, già dopo il primo ascolto. No. Duritz è sempre lo stesso e i Crows suonano sempre gli stessi, con il pianoforte sempre alle fondamenta delle canzoni e quelle chitarre elettriche (Dan Vickrey, David Bryson e il polistrumentista Dave Immerglück) sempre riconoscibili alla prima nota.
È questo il pregio e allo stesso tempo il limite di questo disco: la prevedibilità. Per la prima volta i Counting Crows suonano, in un certo senso, “già sentiti”, come se oramai non gli interessasse più colpire il pubblico con improvvisi cambi di direzione ma suonassero principalmente per se stessi. Anzi, a tratti il nuovo disco sembra quasi un album fatto quasi per divertimento, con una leggerezza maggiore che in passato. Le chitarre di Dislocation, Earthquake driver e Scarecrow sono decisamente elettriche che mai, a richiamare gli episodi più mossi degli album precedenti. Le strutture sono sempre quelle, aperture melodiche sempre invidiabili e che, ascolto dopo ascolto, si insinuano piacevolmente nella memoria. Non mancano i momenti più introversi, come l’acustica God of the ocean tides, la cui struttura e i cui suoni richiamano da vicino quella The ballad of El Goodo dei Big Star che concludeva il precedente Underwater sunshine o il racconto country Cover up the sun.
Quello che però sembra mancare rispetto al passato è la bruciante urgenza creativa che contraddistingueva tutti i lavori precedenti. Ma qui è necessario fare il pieno di obiettività e chiedersi se ci si può aspettare che una band, per quanto oculata nelle produzioni discografiche, mantenga immutato per più di vent’anni il sacro fuoco degli inizi. A mente fredda la risposta è quasi scontata: è quasi impossibile. E tant’è, specie se a prendere il posto di un’ispirazione passionale subentra un mestiere mai sopra le righe e una capacità di mantenere un equilibrio sonoro invidiabile, grazie a una produzione brillante e mai eccessiva.
Eppure, l’anima più profonda dei Counting Crows non si è persa del tutto e va cercata nei due estremi del disco, il primo e l’ultimo brano, senza dubbio quelli che valgono il prezzo dell’intero album. L’iniziale Palisades park è una suite di otto minuti in cui è condensata tutta l’essenza del gruppo. La latente malinconia, il senso del distacco e della perdita, le improvvise accelerazioni quasi rabbiose, le evoluzioni della voce di Duritz, tutto sublimato in uno dei pezzi migliori mai scritti dalla compagine californiana. La finale Possibility days è una di quelle ballate potenti in cui emerge tutto l’animo sognatore di Duritz, che ha la stessa forza di brani del passato come Holiday in Spain, Goodnight Elizabeth o Amy hit the atmosphere, a testimoniare che il fuoco delle origini non si è definitivamente estinto.
Arriviamo alla domanda finale. Somewhere under wonderland è un capolavoro? No di sicuro, e la sua forza è decisamente inferiore ai primi tre album del gruppo (ma anche a Saturday Nights & Sunday Mornings). Però è un bel disco, con dei momenti eccellenti. E da una band irregolare e umorale come i Counting Crows forse non è giusto chiedere più di questo.