I Gaslight Anthem sono tornati, puntuali come sempre, tipico di una band che non ha mai fatto attendere troppo i propri fan, non mettendoci mai più di due anni tra un disco e l’altro. “Get Hurt”, il loro quinto lavoro in studio, arriva bene o male ventiquattro mesi dopo il precedente, riuscitissimo, “Handwritten” e anche questa volta, a dispetto delle solite, obbligate dichiarazioni della vigilia, si potrebbe liquidarlo in due parole: c’è stata un’ulteriore maturazione nel songwriting e negli arrangiamenti, ma il sound complessivo e il marchio di fabbrica rimangono gli stessi, tanto che nessuno che abbia apprezzato i lavori precedenti rimarrà deluso. 



La band del New Jersey, del resto, non è mai stata troppo complicata nel portare avanti il proprio discorso: un bel sano rock and roll venato di punk e garage, un immaginario collettivo legato a quell’America spavalda e leggendaria così ben dipinta in film come “Gioventù bruciata” o “American Graffiti”. E fatta propria da un certo Bruce Springsteen, ovviamente. Uno con cui i Gaslight condividono un bel po’ di cose, oltre alla provenienza geografica. E che, assieme ai vari Clash, Rolling Stones, Tom Petty e Pearl Jam, costituisce la loro più importante fonte di ispirazione. 



“Get Hurt”, dicevamo, si presenta comunque all’insegna di un cambiamento oggettivo: è stato registrato a Nashville e dietro la consolle non c’è più Brendan O’ Brien, bensì Mike Crossey, famoso per aver lavorato molto con gli Arctic Monkeys, oltre che con Foals e Black Keys. Un desiderio di allontanarsi dal rock classico in favore di un approccio più indie e “alternativo”? Non la direi così. Piuttosto, per riprendere le parole del cantante, chitarrista e compositore principale Brian Fallon, si è trattata di una decisione frutto della consapevolezza di avere per le mani canzoni che suonavano in maniera molto diversa da quella precedente e che quindi necessitavano di un differente approccio sonoro.



A sentire bene, adesso che abbiamo il disco tra le mani, tali parole ci appaiono un po’ esagerate. Queste 12 nuove canzoni (15 nell’edizione deluxe), suonano in tutto e per tutto Gaslight Anthem e, lo ripeto, non deluderanno proprio nessuno di quelli che li apprezzano, mentre coloro che li detestavano prima non troveranno certo dei motivi per poter cambiare idea. 

Semmai, potremmo ancora una volta citare Fallon, quando, portando Tom Petty e la sua “I Won’t Back Down” a titolo di esempio, dice che, invecchiando, viene voglia di rallentare un po’ il ritmo delle canzoni, nella consapevolezza che i tuoi fan troveranno il modo di apprezzarle comunque. Pare che sia proprio quello che è successo, in effetti: è vero che ci sono cose come “Rollin’ and Tumblin'” e “Helter Skeleton” (entrambe contengono citazioni colte nei titoli), che sono veloci, punkeggianti, leggermente epiche, in linea con tutto ciò che è un vecchio classico della band. Accanto a queste però, abbiamo anche brani come l’opener “Stay Vicious”, che inizia con un riff roccioso e granitico, per poi rallentare ulteriormente e diventare molto più delicata nel ritornello. Oppure “Stray Paper”, “Selected Poems” e “Underneath the Ground”, che hanno una struttura più complessa e si muovono tra numerosi cambi di tempo che ne sacrificano un po’ l’immediatezza. Nel complesso, si tratta di un lavoro meno diretto che in passato perché anche episodi come “Red Violins”, “Ain’t that a Shame”, “Dark Places, pur lineari ed orecchiabili, sono piuttosto lontane dalle cavalcate rabbiose e tirate del passato. 

Ad ogni modo, a cominciare dal titolo, questo è un disco che sa di sofferenza e di sconfitta, di contatto a muso duro con quei lati della vita che ti abbandonano a terra ferito e sanguinante. Recentemente Brian Fallon ha divorziato dalla moglie, dopo dieci anni di matrimonio ed è inevitabile che gli strascichi di questa esperienza siano andati a confluire nei solchi di questo lavoro. Il romanticismo e l’atmosfera un po’ guascona che caratterizzava soprattutto i primi due album sono così spariti, lasciando spazio ad una malinconia e a una disillusione che la title track  ha saputo racchiudere appieno: “Qualche volta mi alzo al mattino, qualche volta sogno un po’. Non fascio le mie ferite mentre ruzzolo attraverso la porta. Sto pensando di andarmene in California. Mamma, dirai una preghiera per me? Ho sentito dire che là non si deprimono così tanto. Ho sentito dire che non sanguinano come sanguiniamo noi.” E le atmosfere anthemiche di “Rollin’ and Tumblin'” sono questa volta al servizio di parole che, pur velate di una certa ironia, lasciano intravedere una notevole sofferenza: “E tutti i miei amici vogliono andare in paradiso, mentre tutto quel che continuo a pensare io è che vorrei che tu fossi qui. So che tutti continuano a chiamarmi “La grande depressione”. Rotolando e cadendo, continuando a spezzarmi il cuore.” 

Si arriva alla fine senza problemi, magari senza quella sensazione di leggerezza che si provava con gli altri lavori (anche se già “Handwritten” era un disco più “adulto” degli altri) ma di sicuro certi di essere al cospetto di un ennesimo centro da parte del quartetto del New Jersey. 

Un disco, lo ripetiamo, privo di sorprese ma qualitativamente attestato su un livello alto, con un songwriting sempre godibilissimo (nonostante la tendenza a ripetere certe soluzioni, specialmente nelle linee vocali) e un lavoro di produzione che valorizza appieno ogni componente del sound, a partire dalla voce di Brian, mai così ispirata ed espressiva (difficile che riesca a tenere questo livello anche dal vivo ma pazienza). 

Una band che non arriverà mai a diventare fondamentale, che rimarrà sempre piena di limiti ma che, lentamente, si è costruita un’identità precisa e un seguito di pubblico che appare del tutto meritato. A novembre saranno nuovamente da noi, all’Alcatraz di Milano, dove hanno già suonato durante il tour precedente. Dal vivo non sono sempre impeccabili ma sono intensi e sinceri e mettono in piedi uno spettacolo che non può non essere visto, se si amano le loro canzoni. Per chi vuole, ci vediamo lì…