E’ bello diventare vecchi. Ce lo dice Leonard Cohen, 80 anni appena compiuti e un disco nuovo nuovo che esce in questi giorni, “Popular Problems”. Un disco che fa venir voglia di ridere. Non un riso beota come quello a cui siamo abituati, ma un riso di gioia, come quello di un bambino. Vecchio e bambino in fondo è la stessa cosa, entrambi hanno una innocenza che si perde nella strada di mezzo, anche se questo nostro mondo moderno ci fa credere che essere anziani è una cosa brutta e allora meglio soluzioni facili come l’eutanasia legalizzata per evitare il problema.



No, c’è un modo di diventare vecchi, che è davvero bello. Certo, dipende da come si è vissuta la vita. Se la si è sprecata in sogni, ideologie, simboli fasulli, superficialità, quelli di cui ci inondano le pubblicità televisive, diventare vecchi sarà un incubo. Se la vita la si è spesa alla ricerca della Bellezza, essere vecchi porterà al disvelarsi di questa ricerca.



Non che il nuovo disco del poeta canadese sia così gioioso, almeno per quanto riguarda le liriche, che tratteggiano invece un mondo infernale dove la violenza, lo stupro, la guerra, le ingiustizie sono cibo quotidiano (Ho visto gente morire di fame / Eccidi, stupri / I villaggi bruciati / E loro in fuga / Non potevo incontrare i loro sguardi / Fissavo le mie scarpe / Era acido, era tragico / Quasi come il blues). Ma è il modo con cui Cohen affronta questi “problemi popolari”, perché ce li hanno tutti anche se fanno finta di non vedere, che è illuminante e rasserenante.

Innanzitutto musicalmente: fa quasi tenerezza sentire questo uomo ottantenne cercare di tirare fuori con forza quello che gli rimane della sua voce in Did I Ever Love You. Fa tenerezza sentirlo rivisitare quei mondi musicali antichi in cui ha sempre vissuto e che oggi i talent show e un rock cialtrone non ricordano più: blues, jazz, folk, gospel. Quanta bellezza teneramente condivisa in questo approccio musicale a cui basta pochissimo: un pianoforte, delle tastiere, delle voci femminili di accompagnamento, qualche spruzzata di fiati a dettare il ritmo. E si ride e sorride ascoltando queste canzoni, come ritrovare un vecchio amico, un antico amore, da stringere e abbracciare. Perché adesso siamo vecchi, ma il cuore è giovane, giovanissimo, ed esulta di contentezza.



Qual è il senso di questo disco, per un ottantenne che potrebbe godersi la sua età al riposo, lo spiega lui stesso: “E poi, cos’è la fatica? Posso dire che mi stanco a cantare quando c’è gente che muore di fame, scende in miniera o marcisce in prigione? Fare quel che non ci piace è faticoso. Nel mio caso lavare i piatti”. Ecco. Quanta dignità. Come i vecchi maestri del blues che hanno cantato e suonato fino a tarda età, Cohen oggi insieme a Dylan che lo segue a sette anni di distanza, è l’unico artista rock che a 80 anni può fare dischi con dignità. Nessun altro potrebbe farlo, con quei capelli tinti, i bicipiti in mostra, il desiderio un po’ patetico di restare per sempre giovani nonostante le rughe che abbondano. Cohen, lo sappiamo ormai bene, è un maestro zen (in un convento buddista ci ha vissuto per più di dieci anni, ma senza mai rinnegare la sua fede nativa, quella ebraica) pieno di saggezza e comprensione. Sulla copertina del disco si appoggia a un bastone e va per la sua strada, come un Clark Gable sorridente, il Borsalino sulle ventitré, incontro alla fine di quella strada già pregustando quello che lo aspetterà. Cohen, di fatto, ci parla e ci canta da un altro mondo, quello eterno, dove con una gamba ci ha già messo piede.

“Popular Probems” mette insieme canzoni che Cohen ha cominciato a scrivere dieci, anche venti anni fa. E’ sempre stato il suo metodo di lavoro. Samson in New Orleans ai tempi dell’uragano Katrina. A Street invece dopo l’11 settembre 2001, per dirne due. Un disco che poi finisce con un epitaffio delicatissimo con You got me singing. Qui ripete più volte alleluia, quella parola che intitolò una delle sue più celebri canzoni, appuntoHallelujah, e che ci dice che questi problemi popolari, per quanto siano orribili come la guerra o la malattia, si possono superare, affrontare, ci si può convivere senza esserne sopraffatti. Basta affidarsi. Alla vita, a Dio:”Alleluia è una parola ricca, evoca abbondanza, è una parola meravigliosa da cantare. Trasmette energia quando la sputi in faccia alle catastrofi, è un’affermazione del nostro vigore. Vi dirò un segreto, sono un ottimista”. Cohen ottimista? Con l’età Cohen, l’eterno depresso, pessimista, sconfitto dalla vita, ha scoperto anche il senso dell’umorismo? No, ha scoperto come si può stare a galla nella vita.

Canzoni recitate più che parlate, per l’età, ma anche per quel modo ineffabile di sovrastare la struttura dellacanzone che Cohen in fondo ha sempre avuto, lui signore della poesia, prima che della canzone, ma che in una “torre di canzoni” ha trovato la sua vera identità. Eppure di musica, sottintesa più che esplicita, qua ce n’è tanta, addirittura da ospitare una cantante araba, Dhafer Youssef, in Nevermind, mentre il blues la fa da padrone nell’iniziale Slow, dichiarazione di intenti di chi vuole una vita lenta per gustarne ogni attimo, o in My Oh My, che è poi quasi un pezzo Motown. 

 

L’anziano gentiluomo di Montreal, l’affascinante rubacuori, lo zingaro che ha viaggiato dall’America alle isole greche, da Berlino a Londra si è adesso trasferito in un angolo di America da lui poco frequentato in passato, la città degli espatriati afro americani, Chicago. 

Se Slow infatti è un autentico blues da bassifondi di Chicago degli anni 40, Almost the Blues, nonostante il titolo, è invece un classico pezzo alla Leonard Cohen anni 80 e 90. La voce si spezza come quella di un barbone con il ventre gonfio di alcol che si trascina per gli stessi bassifondi di prima. C’è tutto l’orrore per la propria vita che va in frantumi, così come quella di migliaia di bambini, donne innocenti nella terra maledetta che va da Damasco a Baghdad: “Non c’è un Dio nel cielo e non c’è inferno sotto di noi, dicono i grandi professori, ma ho ricevuto l’invito, quello che i peccatori non possono rifiutare e per me questo è quasi salvezza, quasi come fosse un blues”. Il barbone con la voce rotta sorride. Accetta la tua condizione, anche quella di peccatore, e conoscerai la salvezza.

Samson in New Orleans comincia con le note di tastiera di un inno gospel di una chiesa, indovinate dove (ovvio, nei bassifondi di Chicago). La voce rincorre le note eterne di Anthem, quegli inni sacri che solo il poeta ha saputo creare. Ed è ancora un inno con le voci di donne ad accompagnarlo.

A Street è di nuovo blues, un blues metallico e martellante, implacabile come gli aerei che si schiantarono sulle torri gemelle. Did I Ever Love You è un rantolo spezzato che si apre a una danza country condotta da voci femminili, quasi a rimproverare questo vecchio amante sporcaccione: lui sui marciapiedi di Chicago, loro che lo irridono dalla loro purezza angelica violata una volta di troppo. E’ una voce incontenibile immersa nel dolore e nella sofferenza. “Non ho forse provato ad amarti?” si chiede stupito il vecchio barbone in My Oh My con queifiati che portano una Chicago ancora più antica ed evanescente: big band, orchestre di fantasmi, spettri che vagano senza pace. Nevermind è elettronica di luci al neon che scoppiano e cascano, si spezzano come i sogni all’alba, come una bottiglia di vino scadente lanciata a frantumarsi sul marciapiedi. Il poeta e il vagabondo si accompagnano in una notte senza stelle tra angeli e demoni. Born in Chains riporta il nostro vagabondo in chiesa, l’organo annuncia il benvenuto, il poeta declama con le voci di donne che gli rispondono: sia benedetto il Suo nome, il nome di colui che bisogna pregare. You Got me Singin’ porta finalmente il vagabondo a casa. C’è una stanza al Chelsea Hotel prenotata a suo nome da quasi 50 anni, è sua per sempre e qui potrà finalmente addormentarsi. In pace con se stesso, le sue donne, i suoi angeli, i suoi diavoli. E il suo Dio.

“Popular Problems” non è il disco a cui chi non ha mai ascoltato prima Cohen deve accostarsi, certamente. Sarebbe come prendere un libro e andare subito al finale. Per tutti gli altri che questo lungo viaggio lo hanno invece fatto sin dall’inizio insieme a lui, sarà come la ricompensa di una attesa, la risposta alle mille domande che lui ha suscitato nei nostri cuori: “Viviamo prigionieri di un senso di paura e di sconfitta, minacciati da forze oscure che modificano le nostre vite. Tutti soffriamo, tutti siamo impegnati in una lotta per il rispetto reciproco. Dobbiamo cominciare a riconoscere che il nostro dolore è uguale a quello degli altri, che la nostra battaglia è legittima quanto quella dei nostri nemici. Siamo frutto delle circostanze, liberi e prigionieri in tempi diversi”. Amen, Mr. Cohen.