È uscito il nuovo disco degli U2. E questo lo sappiamo tutti o quasi. Lo sanno di sicuro tutti gli utenti di un noto servizio di distribuzione online di proprietà e di creazione di un altrettanto noto marchio informatico. Lo sanno anche tutti quelli che hanno acceso la radio o la televisione in questi ultimi giorni: difficile resistere al bombardamento a base del nuovo singolo “The Miracle (Of Joey Ramone)”, trasmesso anche in prima serata dal più importante telegiornale italiano.
Più difficile che in molti si siano accorti di un altro avvenimento accaduto nello stesso giorno: se durante il pomeriggio del 9 settembre veniva disvelato Songs of innocence di Bono e compagni, alla sera negli USA una band compariva in una delle più importanti e seguite trasmissioni serali, il Jimmy Fallon Show. Quella band si chiama The Replacements ed è la diretta emanazione del suo leader Paul Westerberg. A venti e più anni dal suo scioglimento e in una formazione rivoluzionata (dei membri originali ci sono solo più Westerberg, appunto, e il bassista Tommy Stinson), i ‘Mats – come li chiamano i loro ammiratori più accaniti – ritornano a suonare insieme.
Cosa c’entrano questi due eventi l’uno con l’altro? Semplicemente rappresentano due visioni antinomiche del rock, due modi opposti di vivere e di sentire l’idea della musica. Da un lato c’è la costruzione musicale degli U2, un sistema perfetto e curato e cesellato in ogni minima nota, in ogni minimo suono, in ogni minimo respiro: nulla è lasciato al caso, tutto è perfettamente studiato, dal videoclip al millimetro del settaggio di ogni manopola del mixer. Dall’altro lato c’è una band, i Replacements, e un autore e cantante, Paul Westerberg, che fanno dell’istinto la propria ragione di vita. Di solito le sue canzoni si fermano a tre accordi, massimo quattro. Westerberg è poi un cantante-equilibrista, sempre sul crinale della stonatura, con un timbro che sa di carta-vetro: ogni nota che canta la canta come se fosse l’ultima e la più importante della sua vita, tanta è l’enfasi che ci mette dentro.
Un’altra casualità: il primo singolo degli U2 è dedicato a Joey Ramone, uno dei membri dei leggendari Ramones, la band punk americana più importante di sempre, gente che, pur conoscendo un accordo e mezzo ha segnato indelebilmente la storia del rock. Il pezzo che i Replacements hanno suonato da Jimmy Fallon è dedicato ad Alex Chilton, geniale autore e cantante, che con i suoi Big Star, all’inizio degli anni Settanta, ha registrato tre album di culto, ridefinendo la calligrafia della canzone pop. Non lo conosce nessuno, eppure è stato uno dei musicisti più influenti della sua generazione. Strano, vero? Da un lato una band che affonda le sue radici nella musica più dura, nel rock’n’roll più elettrico (sebbene Westerberg abbia poi sfoderato doti da autore di ballate come pochi altri negli ultimi trent’anni) che omaggia un musicista pop, peraltro quasi sconosciuto. Dall’altro quella che si è affermata negli ultimi vent’anni come una delle più importanti macchine pop del pianeta che celebra uno degli eroi del punk.
Qualcosa non torna. Ma d’altronde, per capire davanti a chi stiamo davanti, dobbiamo fare un passo indietro e parlare di chi è Paul Westerberg e chi sono i Replacements.
La parabola dei ‘Mats inizia a Minneapolis nel 1979 e si compie nel 1990, nel segno del suo leader indiscusso. Tante chitarre elettriche, uno sfrenato tasso di rumorosità e di irruenza, eppure i Replacements erano qualcosa di più dell’ennesimo gruppo punk del periodo. C’era, nelle loro canzoni, un tasso di tristezza e desiderio di redenzione elevatissimo rispetto agli stilemi del tempo. “Come faccio a dire che ti amo ad una cazzo di segreteria telefonica?” gridava Westerberg in Answering Machine, dal loro primo capolavoro Let it be, pubblicato nel 1984. Oppure “Guardami negli occhi e dimmi che sono soddisfatto. Sei soddisfatto? Io sono insoddisfatto perso”, nell’inno generazionale Unsatisfied, dallo stesso album. I Replacements degli esordi fino al secondo capolavoro Tim (anno 1985) hanno descritto la perdita dell’innocenza del passaggio tra la giovinezza e l’età adulta, appoggiando le proprie fondamenta sul punk e sull’urgenza creativa ma curando le melodie in maniera decisamente più attenta rispetto alla media degli altri gruppi dell’epoca.
Normale, dunque, che i successivi ed ultimi tre album della band si inserissero in un filone decisamente più classicheggiante, dove il tasso di elettricità diminuiva leggermente in favore di una compostezza (se di compostezza si può parlare per descrivere il songwriting di un irregolare come Paul Westerberg…) che guardava ai classici della canzone rock americana, da Springsteen a Petty a Mellencamp, passando per il country. Ne venne fuori il terzo capolavoro di fila, Pleased to meet me (1987) e due ulteriori dischi – Don’t tell a soul e All shook up – che sembravano più l’emanazione diretta del loro leader che album di una band vera e propria.
Naturale, dunque, che le strade del gruppo si dividessero. La separazione, lungi dall’inaridire la vena di Westerberg, la fece esplodere in un caleidoscopico piglio autoriale. Le chitarre elettriche che randellavano i brani della band si diradavano (ma non sparivano del tutto), in favore di un’attenzione alla forma canzone sempre maggiore, senza però che il mestiere prendesse mai il posto dell’urgenza creativa. Se prima erano i tempi veloci a declinare l’inquietudine di Westerberg, ora sono le ballate a raccoglierne il testimone. Schegge di follia in album a volte pienamente a fuoco (14 Songs, Suicaine Gratifaction), in cui la coerenza stilistica – da rocker maturo nel primo, da balladeer col cuore sbucciato nel secondo – riesce a dare un ordine alla creatività dell’autore, a volte invece distonici e confusi (Eventually, Stereo/Mono, Folker) eppure irrimediabilmente affascinanti e pieni di perle nascoste nei momenti più inaspettati.
Lo scrittore Nick Hornby, in una delle più belle pagine del suo 31 Songs, parlando di Paul Westerberg e della sua Born for me – meravigliosa e notturna ballata pianistica contenuta nell’altrettanto meraviglioso Suicaine Gratifaction – citava l’assolo di piano in esso contenuto come uno dei più begli assolo da lui mai ascoltati. Pochissime note, una competenza tecnica essenziale quando non minimale, eppure in quelle poche note al pianoforte, senza neppure dare sfoggio di naiveté, Westerberg riusciva a cogliere nel profondo l’essenza della canzone, a completarne il significato. Frutto di un’istintività raramente controllata, irregolare ed incostante, eppure che trova nel mezzo creativo lo sfogo per la propria intera esistenza.
Paul Westerberg è l’urgenza creativa fatta persona, dall’esordio del 1981 (Sorry Ma, Forgot to Take Out the Trash) con i Replacements fino agli ultimi e sconclusionati lavori solisti, tutti autoprodotti e prevalentemente distribuiti su internet (tendenzialmente singole canzoni, non inserite in progetti discografici compiuti) e il ritorno con i ‘Mats più che un’operazione nostalgia sembra il desiderio di “riportare tutto a casa”, di chiudere il cerchio (oddio, la perfezione geometrica del cerchio male si sposa con lo zigzagare costante della carriera westerberghiana) della propria parabola artistica.
Chi ha visto il video dell’esibizione al Jimmy Fallon Show ha visto una band che sembra quasi fuori tempo massimo eppure che si gioca tutto sul palco, lasciando che sia il potere di tre accordi a inseguire la propria innocenza personale.
In questo sta il paradosso: la citazione di William Blake da cui gli U2 hanno preso il titolo del loro nuovo album pare piuttosto sbagliata. Sarebbe stato più corretto definirle non tanto “canzoni di innocenza” bensì “canzoni di esperienza” (come la seconda parte della raccolta poetica dello stesso William Blake). L’innocenza non c’è. C’è mestiere, c’è perizia, c’è anche una buona dose di bravura (e in questo il sottoscritto non è il più indicato a giudicare un album degli U2, e lascia quindi la parola al nostro Walter Muto che ne ha sviscerato bene il contenuto) ma, no, l’innocenza non c’è.
Se si cerca innocenza, intesa come l’esigenza bruciante di essere se stessi attraverso la propria creatività e di fottersene delle regole del mercato o del music business, bisogna andare a cercare Paul Westerberg e i suoi Replacements.
Non è una questione di stare da una parte o dall’altra della barricata: è una questione di istinto, una questione di cuore. Il rock’n’roll è fondamentalmente una questione di cuore, lo è stato dagli inizi e, per fortuna, grazie a quelli come Paul Westerberg, a volte lo è ancora. E Paul Westerberg non sarà Dio – come dico spesso in un mio tipico e iperbolico intercalare – ma una sua diretta promanazione sì, questo è sicuro.
(Questo articolo è dedicato a due cuori rock’n’roll, i miei amici Fabio Cerbone e Max Larocca)