Certo che avendo a disposizione quello che probabilmente è il miglior batterista oggi in azione, e cioè Glenn Kotche, fa un po’ sorridere pensare che Jeff Tweedy per il suo primo disco solista sia ricorso al figlio diciottenne. Non sorriderete più, però, dopo aver sentito come suona il ragazzo, fermo restando che Glenn Kotche è un gigante e aveva spesso accompagnato Tweedy nei suoi tour solisti. 



“Sukierae” però non è solo un disco solista e dunque Tweedy bene ha fatto a distaccarsi dai compagni nell’avventura Wilco (che, sappiatelo, restano vivi e vegeti e attivi), ma è anche e soprattutto un disco “di famiglia” il cui titolo non a caso è il nomignolo della moglie e della mamma dei due, affettuosamente dedicato a lei che ha passato un brutto periodo per problemi fisici.



E allora chiariamo un paio di cose ancora: “Sukierae” per chi pensava fosse simile a quel folk puro, cristallino, profondissimo che il leader dei Wilco propone nei suoi numerosi tour solisti, insomma quello che si ascolta nel bellissimo dvd “Sunken Treasure: Live in the Pacific Northwest” è altra roba. Nel disco appare poi anche un membro dei Wilco, il polistrumentista Scott McCaughey, così come ci sono parti vocali di Jess Wolfe e Holly Laessig della band dei Lucius, ma il disco vero e proprio è frutto di papà e figlio Tweedy. 

Spencer è batterista straordinariamente dotato, ha uno stile unico e a volte informale, sicuramente istintivo ma si accoppia a perfezione con le melodie sbilenche, caotiche, declamatorie del padre. I due sono anche in giro in coppia a promuovere il disco con diversi concerti. 



Detto, questo, narrano le cronache di famiglia che papà e mamma scopersero le doti naturali di Spencer quando aveva solo 5 anni e che lui si sia sempre tenuto in disparte dalla carriera paterna fino a quando è stato il padre stesso a chiedergli di registrare insieme. E dunque? Il risultato è piacevolissimo per chi ama quel personaggio unico, geniale, confuso ma strabiliante che è Jeff Tweedy, forse l’unico vero innovatore della scena rock americana degli ultimi quindici anni.

Tweedy dimostra, inoltre, nonostante gli ultimi due dischi dei Wilco non avessero stupito come i precedenti capolavori della band, di avere ancora tantissima carne al fuoco dal punto di vista creativo e questa avventura crediamo non possa che fare del bene al futuro della sua band. 

Curioso come sempre nei suoi momenti migliori, Tweedy esplora latitudine diverse e avvincenti: psichedelia, noise, punk e anche il folk che ama tanto aggiungendo piacevoli venature country. 

Il disco comincia con una scarica di energia punk, unico episodio del genere, Please Don’t Let Me Be Understood, che ricorda gli inizi garage degli Uncle Tupelo. 

Prosegue in una serie di melodie psichedeliche di pregevolissima fattura: High as Hello, col passo tipico di certi episodi di “Summerteeth” dei Wilco, dove la batteria di Spencer assume già a protagonismo con interventi declamatori; World Away, introdotta proprio da una rumorosa batteria dove la voce e la melodia sono John Lennon al 100%, grande amore di Tweedy tanto che viene da chiedersi se sia un brano inedito dell’ex Beatle,pezzo che poi si chiude con una lunga coda chitarristica impazzita, tipica del miglior Tweedy; poi gli oltre sei minuti della sperimentale Diamond Light P. 1, autentica psichedelia tardi anni sessanta.

E’ un inizio eccitante che mette in tavola carte di classe sopraffina. Si cambia poi registro, come spesso accade nel disco, con il valzer delicato di Wait for Love, melodia  sognante come Tweedy non ne scriveva da anni. 

Se un difetto (difetto?) questo disco ha è il numero dei brani, ben venti: in questa epoca di consumi usa e getta non piacerà a molti, ma noi ne siamo contenti. Tweedy ha detto che aveva pronti ben novanta pezzi, la speranza è di vederli uscire fuori quanto prima, magari sotto il logo Wilco. Ne siamo così contenti, di questa lunghezza creativa, che non vi diciamo altro e vi invitiamo a scoprire un disco che ha tantissimo da raccontare (ad esempio Nobody Dies Anymore, degna di apparire anche questa su “Summerteeth” con la sua malinconia cosmica, o ancora il bel country ruvido di Summer Noon). Ognuno sceglierà quei momenti con cui si sentirà maggiormente in sintonia, tornando su altri in un secondo tempo e scoprendo nuove emozioni. La musica rock, in fondo, è sempre stata un’arte democratica. Non si impone, non pretende, chiede solo accesso al cuore di ognuno: lasciami entrare, dice, se no fa lo stesso. Io ci sono comunque. E’ un gran conforto questo, come quando Jeff Tweedy in uno die soli tre episodi del disco canta e suona tutto da solo, in Pigeons: “Let’s sing our songs for the pigeons As common as religion High on, high on Mt Zion We’re all dandelions All dandelions”. Siamo fiori di campo, siamo una cosa normale e comune, come la religione del nostro cure.

“Sukierae” è un disco perfetto per accompagnarci nel lungo autunno che ci attende: ha tanto da dire, e noi lasceremo che si racconti.