“Ho ucciso un uomo a Reno, solo per vederlo morire” cantava Johnny Cash nel brano Folsom Prison Blues, canzone che fu il primo successo di una lunga e brillante carriera. “La prima volta che le ho sparato, le ho sparato al fianco, era difficile vederla soffrire ma con il secondo colpo è morta, e così Delia se n’è andata”. E’ sempre Johnny Cash a cantare, questa volta nella ripresa di un vecchio tradizionale, Delia. D’altro canto un altro grande della storia della musica rock, Jimi Hendrix, colse il suo primo successo discografico con una canzone che cominciava così: “Hey Joe, where are you going with that gun in your hand? I’m going downtown to shoot my old lady, you know I caught her mess around with another man”, ehi Joe, dove te ne stai andando con quella pistola in mano? Sto andando giù in città per sparare alla mia donna, l’ho beccata in giro con un altro uomo. In Down by the River, in piena epoca hippie, Neil Young cantava: “Giù al fiume, ho ammazzato la mia bambina”.
Violenza, sessismo, femminicidio si direbbe oggi. Il lato oscuro del rock? Pensieri che vengono in mente oggi quando si legge, tra le righe confuse degli articoli di giornali che cercano di riconcorrere affannosamente ogni possibile spiegazione della violenza orribile a cui abbiamo assistito in questi giorni a Parigi, la storia dei protagonisti di quei fatti.
Sapevamo già, sempre dai rapporti confusi dei media che un giorno annunciano una cosa e il giorno dopo la negano o la dimenticano, che il cosiddetto Jihadi John o Black John, il tagliagole inglese che sgozza gli ostaggi di Isis in Siria, avesse avuto un passato da rapper e che per nella cellula di assassini fanatici di Londra i componenti avessero preso i soprannomi dai quattro Beatles. Lui era infatti “John” come John Lennon. D’altro canto uno dei primi pazzi sanguinari della storia moderna dell’occidente, Charles Manson, ispiratore della strage di Bel Air nel 1969, si ispirava apertamente ai Beatles e aveva scelto la loro Helter Skelter come sorta di inno ufficiale della sua rivoluzione che vista con gli occhi di oggi ha tanti punti in comune con quella jihadista: colpire e ammazzare i “porci” bianchi, come li chiamava lui, i “pigs”.
E poi: uno dei due fratelli che ha fatto mattanza alla redazione di Charlie Hebdo lo si è visto in un video di qualche anno fa esibirsi in un pezzo rap. Anche lui come Jihadi John coltivava questa passione.
Anche da noi in Italia non mancano i riferimenti: un rapper bresciano è risultato amico di un altro giovane, partito per la Siria a fare la guerra santa. Anche lui era un rapper.
Che rapporto c’è tra musica, rap e futuri terrorist? Il rap, si sa, da sempre è associato con la violenza, a partire dal noto gangsta rap, che celebra le azioni di giovani afro americani che disinvoltamente fanno uso di pistole per eliminare membri di gang rivali. Molti di loro sono finiti uccisi in sparatorie per le strade di Los Angeles e New York. Un nome su tutti: Tupac Amaru Shakur, ammazzato nel 1996 a Las Vegas con cinque colpi di pistola sparati da una Cadillac in corsa, dopo che nel novembre del 1994 si era già cercato di farlo fuori.
La musica rap non incita necessariamente alla violenza ma colpisce quanto alcuni futuri terroristi fossero ben radicati nella cultura – o contro cultura – occidentale. E’ lì, in quella musica estrema, che trovarono inizialmente sfogo al loro disagio, al loro rifiuto di un mondo di cui non si sentivano parte. C’era una violenza, in quella musica, che poteva dar sfogo a quello che si portavano inconsciamente dentro. Non bastando più neanche il rap, hanno deciso di prendere le armi.
Ma c’è una differenza con quanto cantavano Jimi Hendrix e Johnny Cash. Nell’immedesimarsi in autori di gesti estremi e sanguinari, Hendrix e Cash cantavano un male che volevano rifuggire. Cantavano il male che è nel cuore di tutti e chiedevano misericordia in nome di coloro, i protagonisti delle canzoni, che non potevano o volevano farlo. Peccato e redenzione è sempre stata la cifra artistica della musica di Johnny Cash. Erano consapevoli di un male presente e si interrogavano al proposito: come è possibile che faccio il male quando desidero il bene? Quella violenza cantata aveva uno scopo catartico. Trasportare la violenza nella musica era un modo per farsene scudo.
Non è la stessa cosa per i vari Jihadi John. Non perché il rap esalti la violenza, ma perché il rap rappresenta per alcuni l’ultima frontiera della loro disperazione. E’ la musica del ghetto, che sia a New York o nelle banlieu parigine. E non propone alternative o speranza o pentimento. Nell’incedere incalzante e martellante di ritmiche ossessive, i rapper si immergono spesso in dichiarazioni di guerra, per quanto metaforiche. Usano questa musica per darsi una risposta e un contenuto. Qualcuno in questi giorni si è spinto a dire che i rapper dovrebbero dissociarsi dalla violenza della loro musica, proprio come i musulmani dovrebbero dissociarsi dall’estremismo terroristico di alcuni di loro.
In tutto questo marasma c’è un personaggio che torna a far capolino e che sembra essere il gran regista di un disegno torbido. Ha attraversato in silenzio la storia della civiltà occidentale degli ultimi cento e più anni. E’ uno spettro che si aggira e che fa vittime. Sparisce e torna. Uccide e fa uccidere e poi si ritira da qualche parte in attesa della prossima violenza. Fa la sua prima apparizione la sera di Natale del 1895 a St. Louis, nel Mississippi. William Lyons e Lee Sheldon, due giovani di colore, sono al bar a bere insieme. I toni tra i due si accendono e a un certo punto Lyons butta a terra il cappello dell’altro, che non è uno qualunque: è un magnaccia, un “pimp”, un malavitoso. Sheldon gli dice di raccogliere il cappello, l’altro lo manda a quel paese. E’ troppo per Sheldon che tira fuori una pistola e fa secco l’amico. E’ un uomo cattivo Sheldon, e in pochissimo tempo qualcuno gli dedica una canzone. Non esistevano i telegiornali allora, e cantare era il modo di raccontare quello che succedeva: diventa “that mean ol’ man Stagolee”, il cattivo e malvagio Stagolee, o anche Stack-a-lee, Stag O Lee, Staggerlee come nelle infinite versioni dell’omonima canzone.
Non è difficile vedere, nella reazione sproporzionata rispetto al fatto accaduto e nel volere la restituzione del cappello, status symbol di Sheldon, la stessa violenza dei rapper dei giorni nostri che invece del cappello ostentano vistose collane d’oro e allo stesso modo tirano fuori una pistola per uccidere il rivale, come accaduto tante volte. Non è difficile vedere in Staggerlee i protagonisti dei film della blaxploitation degli anni 70, come Shaft il detective, trafficanti e spacciatori di colore che quando le utopie di Martin Luther King non bastarono più, trasportarono la violenza delle rivolte nei ghetti alla delinquenza pura. Non è difficile vedere Staggerlee tra i giovani estremisti delle banlieu che da rapper diventano terroristi.
Nel corso dei decenni Staggerlee è tornato a far capolino tante volte. Dopo che straordinari bluesmen, uno su tutti, Mississippi John Hurt, ne avevano fatto versioni definitive relegate però al mondo del blues rurale o della folk song, il primo a portarla nella cultura pop, facendone una versione ballabile che raggiunse il primo posto delle classifiche nel 1959 fu Lloyd Price. Il contenuto scabroso del brano non passò inosservato tanto che dovette inciderne una nuova versione con liriche meno esplicite. Ma Staggerlee dalle nebbie di St. Louis era tornato trionfante a far capolino e non se ne sarebbe più andato. Era tornato a reclamare il suo ruolo e a minacciare di morte.
Addirittura in un brano di Elton John: nel 1976, nella canzone Shoulder Holster cambiano i soggetti, ma non l’azione: una donna è in cerca del suo fidanzato che l’ha tradita, per ucciderlo: “It was just like Frankie and Johnny, it was like Stagger Lee”. Torna nel 1979, nel disco London Calling dei Clash, Stagolee spunta fuori nella ripresa di Wrong ‘em Boyo, vecchia canzone dei giamaicani Rulers: adesso Stagger Lee è l’eroe e Billy il colpevole, l’assassino diventa uno sfruttato in cerca di giustizia personale. Nel 2004, i Black Keys hanno cantato di lui in Stack Shot.
La versione definitiva del brano però l’ha fatta Nick Cave, l’unico che può prendere il demonio sottobraccio e condurlo su di un palcoscenico: è sul disco Murder Ballads, ovviamente, le canzoni dell’assassinio. E in quella canzone si rivela per la prima volta la verità della canzone stessa: il diavolo esiste davvero e ognuno di noi lo può incontrare e diventarne alleato.
L’ultima volta che hanno visto Staggarlee è stato per le strade di Parigi. Era insieme a un ex rapper e ai suoi soci, stavano per uccidere un sacco di persone.
Quarant’anni fa, in un’epoca di baldanzose utopie, all’incira il 1968, uno dei più grandi e misconosciuti cantautori italiani, aveva perfettamente riassunto il senso di questa storia e di quanto abbiamo visto in questi ultimi giorni a Parigi. Nella canzone Auschwitz, Claudio Chieffo cantava: “Non è morto il male del mondo, e noi tutti lo possiamo fare”.