Dopo l’inaugurale Fidelio arriva alla Scala un’altra opera sul tema della libertà: Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann che sarà in scena dal 17 gennaio al 3 gennaio in un allestimento coprodotto con il Festival di Salisburgo nel 2013 ed allora recensito su questa testata.
Mentre in Fidelio il muro del carcere viene abbattuto per dare spazio a una nuova stagione di libertà, in Die Soldaten la costruzione di mura porta al disastro umano, politico e sociale. Ricordiamo che Fidelio è frutto del romanticismo di inizio Ottocento, mentre Die Soldaten è un lavoro della seconda metà degli Anni Sessanta, di un autore tedesco che si teneva in disparte dalle mura che allora dominavo la scena musicale europea in generale e quella del mondo di cultura germanica in particolare.
Al debutto a Colonia nel 1965 Die Soldaten venne acclamato come una delle più importanti opere del Novecento. Nonostante Bernd Alois Zimmermann fosse titolare della cattedra di composizione di una prestigiosa università, restò isolato nel mondo musicale tedesco in quanto distinto e distante dalla cultura costruttivistica – marxista dominante a Darmstadt, per anni il principale centro di cultura e formazione musicale in Germania. “Arrotondava” lo stipendio universitario componendo musica da film.
Complesso il rapporto con l’Alto. Pare che, al fronte avesse perso la fede, ma nel 1957 compose Omnia Tempus Habet, un grandioso oratorio, tratto dall’Ecclesiaste. Composto interamente a Roma all’Accademia Tedesca di Villa Massimo, esprime a pieno il tormento interiore di una intera generazione.
Tratto da un dramma in 34 quadri di Jacob Lenz pubblicato nel 1776, ma rappresentato per la prima volta al Burgtheater di Vienna nel 1863, Die Soldaten mostra la dissoluzione di una famiglia borghese a Lille, città di confine e, quindi, piena di caserme e di mura , tra fiamminghi e francesi in lotta perenne. Siamo in una fase di armistizio in uno dei tanti conflitti dell’epoca, ma per i “soldati” se non c’è un nemico da combattere, ci sono le donne da umiliare. In un mondo senza Dio, e caratterizzato da mura ideologiche prima ancora che militari (le secondo sono un effetto collaterale delle prime) si è sempre in guerra. Zimmermann (nato nel 1918) ha passato tutta la seconda guerra mondiale al fronte orientale (Polonia, Russia), un’esperienza lo ha traumatizzato sino a portarlo al suicidio nel 1970 (quando era all’apice del successo).
L’opera dipinge la tragedia di Maria, brava figliola di un commerciante, fidanzata ad un sarto, ma attratta da un ufficiale aristocratico, ceduta da costui ad altri (sia aristocratici sia stallieri sia soprattutto truppe affamate di donne) e portata alla prostituzione ed alle peggiori malattie, nonostante gli sforzi del cappellano dell’esercito e della madre di uno dei suoi amanti passeggeri di evitarle tale destino. Nel quadro finale, dopo una guerra nucleare, sono morti tutti i protagonisti tranne Marie e suo padre, che non la riconosce ma le da un’elemosina, mentre una voce dall’alto intona il “Pater Noster”.
Sotto il profilo musicale, in “Die Soldaten”, a cui Bernd Alois Zimmermann lavorò dieci anni segue una forma rigorosa (strofa, ciaccona, toccata, ecc.) – come in Alban Berg- ma utilizza vari stili (da Bach, a canzoni popolari, a jazz, a sequenze da un Requiem gregoriano) che si fondono in una partitura di base dodecafonica. Il canto è portato agli estremi delle possibilità umane pur facendo comprendere ciascuna parola (in tedesco) in quanto note, vocali e consonanti sono plasmate in modo di essere un tutt’uno. Un vero e proprio crollo dei ‘muri’ musicali che hanno caratterizzato non solo il ‘Novecento storico’ ma ancor di più la seconda metà del Ventesimo Secolo in quanto densi di caratterizzazioni ideologiche e politiche.
Die Soltaten è di difficilissima rappresentazione scenica: richiede tre orchestre (inizialmente Zimmelmann voleva numerosi gruppi orchestrali in buca, in palcoscenico e tra il pubblica di platea e palchi o galleria). Comporta una venticinquina di solisti in quasi quaranta differenti ruoli. Tuttavia, dopo la prima a Colonia è stata ripresa a Monaco, Amburgo, Stoccarda, Düsserdorf, Dresda, nonché nel teatro scavato nelle miniere di carbone della Ruhr. E’ stata messa in scena al Festival di Edimburgo, alla Opera Company di Boston , alla New York City Opera ed al New National Theatre di Tokio. Di recente , due teatri di piccole dimensioni , l’Opera di Zurigo (1100 posti) e la Komische Oper di Berlino (circa mille posti) mostrano come il lavoro, concepito per un grande palcoscenico ed una grande sala , possa essere allestito pure in teatri di taglia media ove non modesta. Ciò non vuole dire che diventerà un lavoro ‘di repertorio’
Lo stesso Teatro alla Scala ha dovuto ripensare profondamente l’allestimento scenico concepito per la Felsereitschule (l’antica cavallerizza) di Salisburgo, caratterizzata da uno smisurato boccascena in cui le varie azioni vengono, a volte, rappresentate contemporaneamente mentre nel fondo scena dodici destrieri (con soldati ed amazzoni) fanno esercizi da concorso ippico. A questo impianto scenico e drammaturgico di Alvis Hermanis ed ai costumi di Eva Dessecker (non settecenteschi ma stile guerre mondiali del Novecento) corrispondono tre grandi orchestre , una in buca e due nei lati della cavea dirette di Ingo Metzamacher, specialista in repertorio contemporaneo.
In buca prevalgono archi, fiati ed ottoni. Ai lati percussioni e strumenti a corda, dando forti effetti stereofonici. L’azione è veloce: i quattro atti sono divisi da un unico intervallo, che si sarebbe anche potuto evitare (l’opera dura meno di due ore) per non allentare la fortissima tensione. Impossibile citare anche solo i dodici protagonisti tra i numerosi solisti. Tra tutti ha spiccato, a Salisburgo ed alla Scala, l’ormai milanese Laura Aikin, un soprano americano che come poche ha saputo gestire bene la propria voce: iniziando da parti di coloratura ed approdando alla scrittura più impervia dove si declina il “do” in tutte le sue accezioni.