Va ascoltato per intero e senza troppe cose da fare, dice PJ Cantù, amico e collega cronista musicale di una vita, uno che di Neil Young ne sa più del diavolo (fa anche cose come questa) e se lo dice lui così faccio. Ha ragione, ogni disco comunque andrebbe ascoltato così, ma chi ha più il tempo per farlo? 

Nel diluvio che caratterizza oggi la proposta musicale fatto di link, download, streaming, dischi nuovi che escono fuori come noccioline dalla macchinetta del caffè , ristampe deluxe della deluxe versino del venticinquennale del trentesimo anniversario della prima uscita con due pezzi inediti e la versione alternativa in mono catarifrangente del mix fatto dal tecnico che si ammalò durante il remix successivo, chi ha più tempo per ascolti approfonditi (non dimentichiamoci la vita reale quella fatta di lavoro mogli mariti figli multe da pagare fratelli dispersi amanti per chi ce le coda alla cassa dell’esselunga etc…).



La musica comunque viene sempre a trovarti quando vuole lei e impone di essere ascoltata. Nel diluvio di cui prima ci si è messo anche Neil Young con le versioni Pono Remaster dei suoi primi quattordici dischi. Che anche se ascoltate in mp3 perché chi spende 400 dollari per il lettore Pono? suonano alla grandissima, con una cura e un calore unici. In effetti adesso che ci penso anche questa mania della ricerca del suono perfetto attraverso miriadi di lettori e sistemi di registrazione sta diventando uno stress oltre che un buon modo per il capitalismo in disfatta di oggigiorno per raggranellare gli ultimi nostri spiccioli. Il suono perfetto è sempre quello, lo trovate nei vinili originali, ma visto che la musica adesso la ascoltiamo di corsa tra un cambio di metropolitana e l’altro e in cuffiette, ecco cosa succede.



Tornando al senso di questo articolo, se mai ne abbia uno, l’amico PJ si riferiva al primo disco di Young, quello uscito nel 1968 con il suo nome in copertina,  snobbato allora e dimenticato da tutti o quasi oggi. Io mi ricordo ancora quando a fine anni 70 me lo regalò mio cugino di Roma che faceva il rappresentante di dischi (che bel lavoro, oggi non esiste più ovviamente visto che non esistono neanche più i negozi di dischi). Come dice ancora saggiamente PJ, il problema di quel disco sono i dischi che Young ha fatto dopo per una decina d’anni almeno. Cioè dischi troppo belli per tenere a mente questo: tra il 1969, anno di uscita di “Everybody Knows This  Is Nowhere” e il 1978, uscita di “Comes a Time”, Neil Young fece uscire una sfilza di album talmente belli da spezzare i polsi a ogni aspirante cantautore nei secoli a venire. Amen. E sono quelli che godono del trattamento Pono, più due, “Hawks and Doves” e “Re.ac-tor” che li lasciamo lì dove si trovano dato che la bellezza a un disco non la si dà con un trattamento remaste e quelli erano proprio brutti.



Il disco in questione comunque non è brutto per niente però lo capisco adesso dopo averlo sempre considerato il classico esordio “boh” da artista immaturo. E’ un disco unico nella carriera di un artista che ha fatto cambi e svolte di percorso in modo ossessivo, affossandosi da solo, prendendosi in giro, nascondendosi e ritrovandosi senza sosta, ogni volta dichiarando di aver fatto il suo “disco perfetto”. 

Un disco come questo però non ha più cercato di rifarlo, anche se si potrebbe obbiettare che “Cones a Time” venne immaginato e realizzato con la pretesa di fare anche di quello un disco perfetto: stessa ricerca di un suono elegante, grande uso di musicisti di classe, arrangiamenti orchestrali, canzoni di livello alto e in alcuni casi altissimo. Ma era troppo legato a una visione sonica particolare, quella acustica made in Nashville. 

“Neil Young” è invece un disco dalle continue sorprese sonore, molto più black di quanto sembri o di quanto Young abbia mai provato a fare. 

Generalmente lo si ricorda essenzialmente per tre brani: The Loner, perché così autobiografica, autentico manifesto del canadese, e poi per la versione heavy contenuta in Live RustThe old laughing lady, perché dannatamente bella e sentita anche talvolta dal vivo, ad esempio al concerto al teatro Smeraldo nel 1989; eThe last trip to Tulsa perché così tipicamente alla Neil Young a venire, e che infatti in questo disco è del tutto fuori luogo. 

 

Il disco ha parecchie cose da dire, una volta che si entra in sintonia con lui. La musica funziona così: un disco puoi averlo anche da trent’anni, ma decide lui quando vuole essere ascoltato. E’ allora che si aprono percorsi, intuizioni, emozioni, connessioni che non avresti mai pensato esistessero. E’ la musica che si impone, non viceversa.

“Neil Young” è il disco forse quello più attentamente prodotto della sua intera carriera, nel senso che sembra proprio pensato per farne un successo di classifica, cosa strana per il canadese. E’ un disco di una raffinatezza ed eleganza uniche. E’ anche commerciale se vogliamo, ma non per questo stupido. Anche perché nel 1968 essere commerciali non era un bestemmia, vista la musica straordinaria che girava in quei giorni ovunque, anche nelle classifiche. Strizza l’occhio a suoni e canzoni dell’epoca. E’ suonato benissimo, ha idee ambiziose e intelligenti. Gli arrangiamenti orchestrali ad esempio, i cori femminili, l’uso del pianoforte elettrico, tante chitarre diverse come sonorità e stili anche nello stesso brano come non avrebbe mai più fatto. Un disco che voleva dire tantissime cose, traghettare Young dai Buffalo Springfield a una nuova dimensione sonica mantenendo dei Buffalo tutto quanto di buono il canadese vi aveva portato ma guardando decisamente oltre. Ben due brani strumentali, poi, a darne contenuto quasi cinematografico, uno a inizio disco e uno a inizio di facciata B, come fossero capitoli di un libro, a dire dell’ambizione riservata a queste registrazioni.

C’è una leggera psichedelica come imponeva il gusto dell’epoca, manipolare le registrazioni come si faceva a quei tempi, con il suono di chitarra che passa da un canale all’altro in dissolvenza. C’è l’approccio alla distorsione fuzzy che diventerà poi devastazione sonica nelle mani di Young quando non riuscirà più a contenersi. C’è anche un sentimento soul fortissimo, come Young non avrebbe più osato sfiorare, brani che ti viene voglia sentire interpretati da qualche gruppo di Philly sound. Insomma, c’è una ricchezza musicale sorprendente. 

Non sorprende allora la lista di musicisti di altissima classe coinvolti in queste registrazioni: Ry Cooder, Jack Nitzsche, Carol Kaye e Hal Blaine – gente che aveva lavorato con Phil Spector per capirci. E ancora: Merry Clayton che poco dopo queste incisioni avrebbe messo la sua straordinaria voce al capolavoro dei Rolling Stones, Gimme Shelter.

 

Pubblicato una prima volta il 12 novembre 1968, quando Young ha solo 23 anni di età, viene ripubblicato il 22 gennaio del 1969 (con il nome dell’artista in copertina che mancava nella prima edizione) perché lo stesso Neil Young è del tutto insoddisfatto del suono. Era infatti stato prodotto usando una tecnica particolare che potesse rendere compatibili le registrazioni stereo sugli impianti mono, allora ancora la maggior parte. Il risultato però era, sembra, scarso sia sugli impianti stereo che quelli mono. Un Neil Young furioso ottenne di far ritirare le copie sul mercato e di remigare interamente il disco per una nuova pubblicazione. Non furono d’accordo molti dei suoi fan, che giudicarono peggiore la seconda realizzazione. Ma anche questo è qualcosa che tornerà in modo ossessivo nella carriera del canadese, la ricerca del suono perfetto. In un certo senso la realizzazione di Pono e il conseguente remastering di tutti i suoi dischi trova origine proprio in questo suo primo disco. L’inizio di una carriera unica nella storia della musica del Novecento.