Mike Scott è senza dubbio uno di quei personaggi per cui il rock deve essere considerato molto di più che musica da mero intrattenimento. 

Scozzese trasferito in Irlanda, coi suoi Waterboys ha regalato dischi memorabili più o meno per tutto il corso degli anni’80: i primi due capitoli, ancora acerbi e influenzati dal rock and roll più tradizionale, hanno presto lasciato il posto ai due capolavori “This is the Sea” e soprattutto “Fisherman’s Blues”, il disco della definitiva consacrazione artistica e dell’esplosione commerciale, (si fa per dire!). Un disco elegante e geniale nell’incorporare l’elemento folk irlandese all’interno di un sound che già di suo ne era permeato (leggi Bob Dylan e Van Morrison tra le sue più importanti influenze). 



Sopravvivere a due dischi del genere non è stato facile. Gli Waterboys ci hanno provato, mutando spesso formazione, mantenendo, oltre a Scott, il violinista Steve Wickham come perno attorno a cui far ruotare il tutto. Ne è venuta fuori una discografia nutritissima ma piena di alti e bassi, mai sullo stesso livello di quelle pietre miliari, nemmeno nei suoi episodi più riusciti. 



La creatura di Mike Scott è divenuta così una grande band di culto, rispettata e ammirata da tutti, che ha iniziato a suonare un certo tipo di cose molto prima che la nuova ondata folk irrompesse in maniera anche un po’ frivola nel panorama musicale, col successo dei vari Avett Brothers, Bon Iver o Mumford and Sons. Niente di più di tutto questo, però, le grandi platee saranno loro sempre precluse. 

Due anni fa Mike si era preso il lusso di pubblicare il suo personale Basement Tapes, le registrazioni complete delle lunghissime sessions di “Fisherman’s Blues”, attese e richieste spasmodicamente da tutti i fan. Un’operazione che ha mostrato tutta la febbre creativa e lo stato di grazia in cui i nostri si trovavano, con un vero e proprio calderone di idee che ribolliva incessantemente. 



Oggi, a quattro anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio e a quasi due dal tour celebrativo del “Fisherman’s Box”, Mike Scott rimette insieme i suoi Waterboys ed è pronto per una nuova avventura. 

“Modern Blues” è sin dalla copertina (una sorta di uomo albero che ricorda un po’ lo stile di Arcimboldo) un tributo a quelle radici folk che questa band, in fondo in fondo, non ha mai dimenticato. 

La partenza di “Destinies Entwined” risulta però leggermente spiazzante: il suono è pieno, carico, con un riff di chitarra roccioso, avvolto da un Hammond che crea un’atmosfera magniloquente, a metà tra il rock da stadio e certe cose al confine con l’AOR. Il mixing è di Bob Clearmountain (uno che ha lavorato con Springsteen, per dire) e forse dipende anche da questo. Il brano è comunque una cavalcata mica da ridere, molto efficace nelle linee melodiche, con un testo epico e immaginifico in cui l’incontro con una donna misteriosa e affascinante porta ad un lungo viaggio, all’esplorazione di nuove terre, come un moderno pioniere, nel tentativo di trovare la verità di se stessi e un punto fermo a cui aggrapparsi. 

Un pezzo che sembra anche prendere in qualche modo posizione di fronte ai difficili tempi in cui ci troviamo, anche se la risposta, pur espressa in maniera poetica e suggestiva, non è forse sufficiente (“Mentre tutti urlano che il nero è bianco e giurano che il bene è male, ho visto tre croci stagliarsi nel cielo, sopra una lontana collina. Il cielo era rosso fuoco mentre voltavo la testa e mi lasciavo indietro la scena. Ho scelto un altro dio come guida, quello che ho dentro di me.”). 

Con “November Tale”, uno dei due brani usciti come singolo, si ritorna ad atmosfere classicamente folk, per una ballata suadente, dove una linea vocale che molto deve a Bob Dylan, narra una storia d’amore tra due persone che professano credi diversi ma che costruiscono un’unità su quello che entrambi hanno in fondo al cuore (“Lei disse: ‘Ho il mio cuore che batte e ho due mani amorevoli con cui posso guarire e non c’è niente che io incontri nella mia giornata, che non abbia la forza di affrontare’. Io dissi: ‘Cara, la stessa cosa vale per me’. E per quanto riguarda il resto, siamo stati d’accordo nel dissentire”). 

Poi c’è “Still a Freak”, un bel blues dal suono robusto, con un gran tiro e delle notevoli divagazioni soliste di chitarra e tastiera. Sara sicuramente ottima dal vivo ma per il resto rimane piuttosto ordinaria, soprattuto se comparata con le prime due. 

Si sale di livello con “I Can See Elvis”, un brano sognante, in pieno stile Waterboys (con l’aggiunta di cori in pieno stile Jordanaires, giusto per stare nel tema della canzone), una ritmica danzante, con Mike Scott che canta un testo visionario, ispirato (come ha recentemente dichiarato in una bella intervista rilasciata a Claudio Todesco) da una discussione sul tour bus in cui si fantasticava di quale aspetto avrebbero avuto le rockstar defunte, nell’Aldilà. Qui ci si immagina un Elvis versione 1957, magro e in splendida forma, che discute di filosofia assieme a Platone e a Giovanna d’Arco, che interroga Shakespeare sulle sue opere teatrali e insegna a Marvin Gaye e a Cavallo Pazzo come ballare la Mashed Potato (una danza particolarmente in voga negli anni ’60). 

Un episodio suggestivo, in cui compaiono un po’ tutti i grandi del rock, da Jimi Hendrix a Bob Marley, da John Lennon a Keith Moon, senza dimenticarsi neppure del Colonnello Parker. Che vi sia lo zampino del Bob Dylan di “Visions of Johanna” o di “Desolation Row” non è nemmeno da discutere. Il tutto rivisto in chiave personale, comunque, per quello che, ne siamo sicuri, sarà un classico dei prossimi concerti. 

“The Girl Who Slept for Scotland” è invece una canzone d’amore dove folk e mitologia si incontrano, suggestiva ma non tra le cose migliori dell’album. 

Un po’ meglio la successiva “Rosalind (You Married the Wrong Guy”), uno dei brani più rock del lotto, molto anthemico, giocato sull’alternanza tra una strofa cadenzata e un ritornello semplice ma irresistibile. 

L’altro singolo, “Beautiful Now”, è stato scritto insieme a James Maddock ed in effetti è molto americana, anche se sorprende un po’ il suo attacco in pieno stile AOR. Un brano gradevole, straordinariamente radiofonico, ma che per quanto mi riguarda risulta riuscito solo a metà, visto che si incarta un po’ nel ritornello. 

“The Nearest Thing to Hip”, coi suoi fiati in bella evidenza, è gradevole e nulla più, ma affronta un tema importante come la spersonalizzazione delle città, coi negozi specializzati che cedono il posto alle grandi catene commerciali. Un fenomeno che ha toccato anche la musica, con la scomparsa progressiva dei negozi di dischi e lo strapotere di Amazon, che ha ridotto i prezzi ma che ci ha ormai privato del piacere di trascorrere qualche ora tra gli scaffali. 

“Hai presente il pezzo di dieci minuti che chiude l’album – ha detto Mike sempre a Claudio Todesco – quello che si apre con la voce di Jack Kerouac che legge Sulla strada? Ecco, “Long Strange Golden Road è il mio guanto di sfida a Jack White, a Leonard Cohen, a tutti i songwriter della terra. Provate voi a fare altrettanto.” 

Caro Mike, hai ragione su tutta la linea: “Long Strange Golden Road” è un brano enorme, un autentico capolavoro, di quelli che da soli tengono su un disco e forse anche un’intera carriera (non che la sua ne abbia bisogno, però). Una cavalcata epica e drammatica in cui Dylan, Springsteen e Van Morrison si fondono insieme, il racconto di un viaggio alla ricerca di se stessi, (ideale compendio del pezzo di apertura), in cui succede di tutto e si incontra di tutto, proprio come nel romanzo di Kerouac (il personaggio di Dean Moriarty viene anche evocato nel finale). 

La strada c’è, bisogna tenerla sempre davanti, bene in vista. Dove si vada, quello non è ben chiaro, si passa dall’Irlanda al Giappone senza soluzione di continuità; a differenza di Kerouac però, c’è una presenza femminile al proprio fianco, che sembra l’unica condizione per poter decidere di partire e andare avanti, nonostante tutto (“Lei lo lasciò a sbavare nella polvere, e con uno zaino sulle spalle, cominciò il suo viaggio amaro verso il confine, che è dove l’ho corteggiata e conquistata. Lei era Afrodite, Elena, Teti, Eva in mezzo ai satiri, era Venere con una maglietta dal collo a V, era tutto ciò che realmente importava.”).

Non si può pretendere di capire ogni cosa, in fondo dei conti “è tutto un codice”, come canta Mike nel ritornello. C’è solo da mettersi comodi, far partire il lettore e leggersi bene questo straordinario racconto on the road. Dieci minuti dopo non sarete più gli stessi e ripartirete da capo, garantito.  

Mojo ha scritto che “Modern Blues” è il miglior disco degli Waterboys sin dai tempi di “Fisherman’s Blues”, appunto. Possiamo, credo, dargli ragione. Suonato e prodotto benissimo, molto più essenziale e dritto al punto di “An Appointment With Mr. Yeats”, questo disco è ben diverso dal capolavoro dell’88 e non ne costituisce neppure una versione rinnovata (già il fatto che sia stato registrato a Nashville dovrebbe spiegare molto). 

Si tratta semplicemente di un lavoro in cui gli Waterboys hanno dimostrato in pieno di essere ancora in grado di scrivere grandi canzoni, nonostante tutta l’acqua passata sotto i ponti. 

Li aspettiamo dal vivo quest’autunno, pare che ce lo abbiano promesso…