“Happy birthday, Mister Frank”. Non erano in molti quelli che potevano permettersi di rivolgersi a lui chiamandolo semplicemente Frank. Facendo così, al termine della sua esibizione durante la serata dedicata agli 80 anni di Frank Sinatra, Bob Dylan dimostrava ancora una volta la sua sfrontatezza e la sua audacia, caratteristiche che lo avevano sempre caratterizzato nel corso della sua carriera, esattamente come avevano accompagnato quella di Sinatra. E poi Dylan quella sera, così dicono le leggende, era stato invitato a esibirsi personalmente da lui, da Ol’ Blue Eyes.
Dylan in cambio dell’onore aveva dato vita a una delle sue più intense e commoventi esibizioni di sempre, scegliendo un suo brano oscuro e dimenticato da tutti, pieno di mestizia, risentimento e malinconia, la canzone Restless Farewell incisa originariamente nel 1964, quando la distanza tra i due non poteva essere più macroscopica. Il folksinger della nuova sinistra e della nuova America kennedyana uno, il simbolo di un’America superata dai tempi e dalle circostanze storiche l’altro, quella della buona borghesia, dei guardiani del mondo libero, del boom economico dove ognuno può farcela.
Restless Farewell, ma pochi se ne accorsero quella sera con l’unica eccezione probabilmente dello stesso Sinatra, era la versione dylaniana di My Way, scritta anni prima che Sinatra incidesse la sua dichiarazione di vita, il suo manifesto. Dylan cantava la stessa dichiarazione di indipendenza e così facendo chiariva perché i due più grandi artisti americani del novecento, insieme a Elvis naturalmente, erano sulla stessa strada: “Un falso orologio prova a sputare fuori il mio tempo, per disgrazia, distrarmi e preoccuparmi, la sporcizia del pettegolezzo mi soffia in faccia, ma se la freccia è dritta e il bersaglio è scivoloso, può penetrare nella povere non importa quanto essa sia spessa, quindi rimarrò fedele a me stesso, rimango quello che sono e dico addio e non me ne frega niente”. Esattamente come Sinatra diceva in My Way: “Ho programmato ogni percorso, ho fatto attenzione a ogni passo e molto, molto più di questo, l’ho fatto a modo mio”.
Ecco perché quella sera, dopo averlo ascoltato cantare, Frank Sinatra rimase per alcuni lunghi secondi immobile con un sorriso che era quasi un ghigno di fraterna corrispondenza, stampato sul viso.
Tutti coloro che storcono il naso al pensiero che Bob Dylan abbia inciso un disco di canzoni rese note nel repertorio di Frank Sinatra mancano questo e altro ancora. Bob Dylan, quello la cui voce è stata definita il rantolo di un cane della prateria, il rigurgito di una sorta di uomo lupo che si permette di fare Sinatra? Orrore, dicono. Bob Dylan, il simbolo dell’altra America, quella dei diritti civili e della contestazione che canta il repertorio di un mafioso colluso con il sistema? Che tradimento. Sciocchezze, ovviamente, che mancano il cuore del mistero affascinante che è la musica. Ogni volta che la si rinchiude in stereotipate categorie ideologiche essa muore, e noi con lei.
Frank Sinatra, il primo idolo pop della storia, è stato anche un rivoluzionario, per come ha cambiato, personalizzato, reso universali le canzoni che ha cantato e il modo stesso di cantare. Nessuno mai come lui prima, nessuno mai dopo. Soprattutto, non è mai venuto meno al mistero della musica che cantava. Non avrebbe saputo cantare così bene altrimenti. Ben prima dell’avvento di Elvis, dei Beatles, degli Stones e anche di Dylan, fu il primo cantante dell’era moderna a fare un lp che non fosse solo una raccolta di singoli come facevano tutti, ma un disco pensato in quanto tale. Si intitolava “In the Wee Small Hours”, pubblicato nel 1955, e fu il primo grande disco a raccontare in musica di una storia d’amore finita male, come poi sarebbe diventato comune per tutti i cantautori rock, dal Dylan di “Blood on the Tracks” allo Springsteen di “Tunnel of Love”, per dirne due. Lo avrebbe fatto ancora con l’altrettanto memorabile “Watertown”, storia di un uomo di mezza età lasciato solo con i figli dalla moglie. Come Dylan non è stato solo un folksinger, Sinatra non è stato solo un crooner: la sua voce comunicava una umanità sorprendente e una capacità di empatia con le tristezze e i dolori della gente. Parlava alla gente, proprio come ha sempre fatto Dylan. Non era solo un vestito elegante e un bicchiere di whiskey nella mano. “Nella sua voce potevo sentire ogni cosa: la morte, Dio, l’universo. Tutto” ha detto Dylan di Sinatra, ed è la descrizione migliore che se ne possa fare.
A proposito del suo disco, lo stesso Dylan ha spiegato che non è stata sua intenzione fare un album in cui calarsi nei panni del cantante italo-americano: “Le canzoni di Sinatra sono praticamente impossibili da rifare – ha spiegato – con quei complicati arrangiamenti, le orchestre di trenta musicisti. Noi invece le abbiamo ridotte all’essenziale, in cinque musicisti e basta. Le hanno rifatte tutti, ha detto ancora, noi – giocando con la lingua americana, ndr – invece di fare cover, le abbiamo “uncoverizzate”: invece di rifarle, cioè, le abbiamo fatte rinascere perché tutti le avevano sepolte”.
“Amo queste canzoni” ha detto nell’intervista esclusiva realizzata per la rivista AARP The Magazine “e non avevo alcuna intenzione di mancare loro di rispetto. Massacrarle in qualche modo sarebbe stato sacrilego e sappiamo bene quanto queste canzoni in passato siano state massacrate (forse si riferiva a Michael Bublè, Robbie Williams e a tutta quella ridicola schiera di cantanti definiti neo crooner che abbondano oggigiorno, nda) e ci siamo abituati così. In qualche modo ho cercato di raddrizzare quello che era storto”. C’è evidentemente una sacralità nelle canzoni, anche se il mondo liquido del terzo millennio non si cura più di questo aspetto.
Tra l’altro, come spiega Dylan nella stessa intervista, si tratta prima delle canzoni e poi di Frank Sinatra: “Quando cominci a occuparti di queste canzoni, Frank ovviamente ce lo hai bene in mente, Perché lui è la montagna, la montagna da scalare”.
“E’ difficile non trovare una canzone che lui non abbia fatto. La gente parla di lui tutto il tempo. Aveva questa capacità di ottenere all’interno del brano una sorta di modo colloquiale. Frank cantava per te – non a te. Non ho mai voluto essere un cantante che canta a qualcuno. Ho sempre voluto cantare per qualcuno. Io stesso non ho mai comprato tutti i dischi di Frank Sinatra quando ero ragazzo. Ma lo si sentiva comunque – in una macchina o al jukebox. Certamente nessuno adorava Sinatra negli anni ’60 come lo adoravano negli anni ’40. Ma lui non è mai andato via”.
Il passaggio indicato da Dylan è fondamentale per capire lui, Frank Sinatra e perché certi interpreti come loro ci smuovono fino a farci cadere in ginocchio a differenza di tanti altri. Un passaggio che si dimentica e si bypassa facilmente. “Cantare per te” e non “cantare a te” significa rivolgersi a un tu preciso e identificabile pur nell’anonimato, non rivolgersi cioè a un tu generico. Io canto per te, mi metto al tuo servizio, cercando di smuovere e comunicare tutto quello che hai dentro al cuore. Non canto alla massa: canto a un tu. E la vita, se non c’è un tu preciso a cui rivolgersi, è solo banalità, superficialità. E noi stessi, se non ci sentiamo provocati da un tu, siamo persi nella marea delle nostre emozioni adolescenziali, egoistiche. Ecco perché i grandi interpreti, come Dylan e Sinatra, anche se non capiamo perché, ci spezzano il cuore.
Preservare canzoni, sogni e promesse fatte a pezzi dai giullari di Wall Street o da quelli della Silicon Valley, o anche da quelli di base a Cupertino, è quanto Dylan fa ormai da anni. L’unica risposta possibile a quegli uomini di affari che bevono il nostro vino (che è poi il nostro sangue) profetizzati nel 1968 sulle note di All along the Watchtower.
Le canzoni sono la mia religione, disse d’altro canto una volta lo stesso Dylan ed ecco perché la sacralità di cui prima. Ecco perché può permettersi di fare un disco riuscitissimo di canzoni di Natale, come fatto pochi anni fa, e oggi uno di standard interpretati da Frank Sinatra, risultando ancora più credibile di quando compone e incide canzoni a sua firma. “Queste canzoni” – ha detto a proposito di “Shadows in the Night” – sono canzoni che contengono grandi virtù. La vita della gente oggigiorno è piena di vizi e maschere. Ambizione, avidità ed egoismo sono cose che hanno a che fare con il vizio. Prima o poi ci devi fare i conti o non sopravviverai. Noi non possiamo vedere la gente che si lascia distruggere dal vizio, vediamo solo l’apparenza esteriore, il loro glamour. Quello che vediamo è la distruzione della vita umana. Queste canzoni sono l’opposto”.
Ecco perché abbiamo bisogno di un disco come “Shadows in the night”: per recuperare la nostra umanità perduta. Le canzoni che Dylan ha scelto per questo disco, rese famose anche da personaggi come Billie Holiday, Rossano Brazi o Ezio Pinza tra gli altri, sono canzoni riflessive, che scavano a fondo dentro l’ascoltatore. Sono canzoni abitate da fantasmi ma anche piene di vita. Gli accompagnamenti scelti sono scarni: poche chitarre, una batteria a colpi di spazzole, a volte dei fiati e una steel guitar. Sono canzoni piene di umanità. la nostra umanità. Come noi, anche queste canzoni vanno a tastoni, inducono in errore, perché siamo deboli e di errori ne facciamo. Cosa ci rende davvero forti? Il fatto che siamo persone fatte di sentimento. Sono canzoni cantate da un uomo anziano, canzoni di amore e di perdita, canzoni che narrano la fatica di lavorare, canzoni che raccolgono l’anima antica di bluesmen, menestrelli da strada, cantanti di spiritual. E’ L’America. Nella voce di Dylan tutto diventa contemporaneo e personale.
I brani che già circolano in rete in attesa della pubblicazione del disco il prossimo 3 febbraio ci dicono tutto questo. Il modo come Dylan canta un super classico come Autumn Leaves, oppure I’m a Fool to Leave You, That Lucky Old Sun, Stay with Me, Full Moon and Empty Arms, è a dir poco commoventi. C’è una fragilità innata, ma c’è anche una maestosità sorprendente nel comunicare tanta mestizia, dolore, nostalgia. Nostalgia di un amore o della vita stessa che a 73 anni sente star sfuggendo sempre di più. Ma non è nostalgia deprimente: è piuttosto gratitudine per tutta la bellezza che si è potuto assaporare e vivere. Non si è soli se qualcuno se ne va, si è soli se qualcuno non è mai venuto, diceva in una sua vecchia canzone Roberto Vecchioni, ed è proprio quello che queste canzoni ci comunicano. Sì, adesso sono vecchio e sono rimasto solo, ma un giorno tu sei venuta da me, e il tuo ricordo colma la tua assenza. E so che da qualche parte e in qualche modo ti ritroverò.
E’ l’ultima preghiera di Bob Dylan. Sono un peccatore che si è smarrito, canta, e implora Dio di non abbandonarlo. Lo dice con parole vecchie di cinquant’anni, pochi strumenti che ti fanno tremare di emozione e il fantasma di un altro celebre peccatore che aleggia su di lui, quello con un paio di occhi azzurri, Ol’ Blue Eyes. Ma in realtà anche Bob Dylan ha gli occhi azzurri. Forse il segreto di questo disco è tutto qui: in uno sguardo che ti attraversa e ti dice chi sei come non te lo ha mai detto nessuno.
GUIDA ALLE CANZONI:
I’m a Fool to Want You. E’ uno dei pochi brani della sua carriera in cui appare anche la firma di Frank Sinatra insieme agli autori (Wolf, Herron). Sinatra la registrò due volte, la prima nel 1951 e la seconda nel 1957. Divenne però un successo nell’interpretazione di Billie Holiday e fu incisa anche da Dinah Washington, Billy Eckstine, Chet Baker, Peggy Lee, Tom Jones, Elvis Costello.
The Night We Called It a Day. Scritta nel 1941, venne incise da Sinatra nel 1957 e registrata anche da, fra gli altri, Chet Baker e Doris Day.
Stay with Me. Incisa da Sinatra nel 1963, ebbe scarso successo e venne ben presto dimenticata da tutti, per venire riscoperta oggi da Dylan.
Autumn Leaves. Uno standard jazz scritto nel 1945 dal compositore ungherese Joseph Kosma con testi aggiunti da Jacques Prevert che ne fece un brano con il titolo di Les feuilles mortes, Sinatra la incise nel 1957. E’ stata registrata da innumerevoli artisti, tra cui anche Iggy Pop.
Why Try to Change Me Now. Incisa da Sinatra due volte, la prima nel 1952 e la seconda nel 1959.
Some Enchanted Evening. Composta dal leggendario duo di compositori Rodgers e Hammerstein nel 1949 per il musical South Pacific, Sinatra la registrò ben tre volte: nel 1949, nel 1963 e nel 1967. Incisa da decine di altri artisti nel corso dei decenni.
Full Moon and Empty Arms. La melodia venne adattata da una composizione del pianista russo Rachmaninoff, Piano Concert n. 2, nel 1945.
Where Are You? Incisa nella colonna sonora del film Top of the Town nel 1937, venne incise da Sinatra per l’album dallo stesso titolo del 1957. La incisero negli anni anche Aretha Franklin, Dinah Washington e Shirley Bassey.
What’ll I Do. Scritta da Irving Berlin negli anni venti per Broadway, Sinatra la registrò nel 1947 e nel 1962. Incisa anche da Chet Baker, Sarah Vaughan, Harry Nilsson.
That Lucky Old Sun. Brano spiritual composto nel 1949 venne registrata da Louis Armstrong, Ray Charles, Sam Cooke diventando in breve uno standard del jazz e anche della musica country, incisa anche da Dolly Parton. Bob Dylan l’ha eseguita dal vivo molte volte, tra gli anni 1986 e 1990.