L’Officina della Camomilla è la classica band indie italiana. Un gruppo sulla scena da diversi anni che, se discograficamente non sembra ancora aver convinto del tutto, dal vivo trova una ragione di essere. Così è stato il concerto di sabato 13 dicembre al Magnolia.

Verso le 22 inizia l’opening act dei Jules Not Jude, band di Brescia che suona per circa 40 minuti pop rock di beatlesiana memoria, mentre il locale si riempie lentissimamente. Alle 22.50, dopo un rapido cambio degli strumenti, i musicisti del quintetto milanese salgono sul palco, accompagnati dal vibrante “Manifesto del futurismo”. Il manifesto riassume benissimo quello che vogliono fare nel live: ribaltare i poeti (come De Leo canta in “Un fiore per coltello”), distruggere altarini e farlo con l’ausilio della velocità, del punk. Per questo iniziano con una devastante versione di “La canzone di Piera”, attaccandoci subito dopo “Meringa Lexotan”, entrambe dal nuovo album. In un attimo tutto il pubblico, che ormai era arrivato ad occupare metà Magnolia, si metta a cantare e inizia timidamente a ballare. Loro, di tutta risposta se ne accorgono, e iniziano a suonare più intensamente. 



Questa nuova spinta emoziale si vede benissimo nelle canzoni successive, “Agatha Brioches” e “Sibilla”. Tra il primo disco e il secondo c’è stato un lento abbandono del lo-fi, delle dinamiche semi acustiche verso un punk rock aggressivo e impietoso, in una continuo incidere di chitarra e batteria e una maggiore cura dei suoni. Tutti questi aspetti si ritrovano anche nel live, che si rivela essere magnificamente punk e onesto. Non c’è nessuna finzione, nessun artificio retorico (a parte i testi di De Leo, ma vabbè) e nessun aut tune: è uno show intenso, per chi vuole sentire musica, e magari fare un po’ il fessacchiotto con gli amici. Ma comunque un concerto vero e proprio. 



Con chitarre da combattimento e note tese per tagliare la fredda aria dicembrina, e distorsioni per tirare giù tutto. Il live continua altalenando pezzi del nuovo disco con quelli del vecchio, comunque rivisitati in chiave punk, ma che riesce a trovare il sentimento in canzoni come “Un fiore per coltello”. Da lì in poi, in parte la serata si spegne, ma tutto per preparare al finale. Una versione devastante di “La tua ragazza non ascolta i beat happening”, che già da disco non era tranquilla, e un’esplosione di distorto e urlato e violenza con “Faccio esplodere il mio condominio di merda”. La velocità, la rabbia che diventa azione, l’abnegazione di un passato opprimente, chiuso fra palazzi scheletro e la voglia di scappare, che confluisce a creare quella bomba di finale che hanno appena suonato. In un attimo è già mezzanotte, e il concerto finisce per davvero. 



Qui, con un pubblico davanti e il brivido del live, si sono giocati in tutt’altra maniera rispetto ai dischi. Dirompenti, punk e capaci: tanta voglia di fare musica, e di suonarlo con onestà. Non c’è il culto dell’intermediario, di chi porta quella cosa bellissima che poi è la musica, quello che invece si è visto è stata la valorizzazione delle canzoni. Non le velleità di un bambino che si crede il miglior musicista del mondo (o il “Dio dorato” di Almost Famous) ma il pragmatismo di un uomo che vuole suonare, per fare una cosa bene e esprimere la musica. 

I miei confusi ricordi sono dettati dall’alcol e dalla stanchezza, ma a me son piaciuti live. Quasi quanto la birra.   

(Gianluca Porta)