A cantare aveva già provato un paio di volte, senza contare le performance televisive; di dischi da solo, invece, curiosamente sinora ne aveva licenziati solo due, “Smat Smat” del 2003 e “Piano solo” del 2007. Stiamo parlando di Stefano Bollani, pianista jazz che sicuramente è ben altro che un pianista jazz, essendo passato da Conservatorio, Enrico Rava, George Gershwin, pop, Brasile, teatro, tv divulgativa e quant’altro: e Bollani col terzo disco in solo, “Arrivano gli alieni”, torna a cantare; anzi, si propone persino cantautore. Lo fa, a dire il vero, solo in tre brani: fra i quali spicca l’esilarante “Microchip” che farà felice da lassù il suo idolo d’adolescenza Renato Carosone; però come sempre nel suo caso trattasi di un album scoppiettante quanto colto e pensato, nel quale la scaletta (che va da “Quando quando quando” di Tony Renis a “Mount Harissa” di Duke Ellington, passando per Harry Belafonte, Horace Silver e la coppia Vinicius/Toquinho) non è che superficie. La sostanza del disco sta nella classe divertita eppure rigorosa dell’artista, e quella dell’artista medesimo, oltre che nel tocco e nella poliedricità delle sue scelte, nelle cose che dice presentando l’album e confermandosi uno dei pochi, in Italia, a saper fare musica a 360°, seriamente, provando pure a farne cultura. Faccenda che non pare affatto da poco, specie di questi tempi.



Bollani, partiamo dall’inizio. Ma è vero che lei a sei anni avrebbe voluto diventare Celentano?

A sei anni, sì, allora (ride, nda)! Ma presto il mito di Adriano è stato sostituito da chi sapeva suonare, come Carosone. E poi dai jazzisti. Mi piaceva l’idea di riuscire un giorno a fare tante cose sul palco, spiazzando, mettendo in gioco anche una certa teatralità.



Come fa quando suona brani noti, del resto…

Provo a trasfigurare le canzoni. Parto dalla loro ossatura,e  poi ci sovrappongo qualcos’altro. Puntando a restare sempre libero, difatti questo disco esce per la Decca con cui ho già inciso lavori completamente diversi (dalla classica a Frank Zappa, nda), ma non ho un rapporto di esclusiva né con loro né con altri. Un artista deve cercare sempre libertà, per restare davvero artista..

Ma quali sono i suoi punti di riferimento nella musica altrui? O meglio, visto che “Arrivano gli alieni” di questo tratta, nelle canzoni?

I Beatles. Jobim. Anche se Jobim lo vedo talmente grande che non lo penso quasi più come autore di “canzoni”. E poi Modugno, Carosone, Jannacci, Gaber, De André, Dalla…

Scusi, ma le piace anche qualcuno di vivente oppure no?

Sapevo che finiva così, speravo non si accorgesse che citavo gli artisti di ieri. Beh, mi piacciono canzoni singole, non canzonieri in blocco. Forse Capossela, poi Concato, Bersani… I talent? Sono sprovvisto di cultura in materia. Gli artisti senza cognome non me li ricordo…

 

In “Microchip” parla di un padre che vuole mettere microchip nel cervello dei figli per sapere dove sono. Al di là che lo stile alla Carosone è magnifico, essendo il pezzo in napoletano, le è nato da paure di genitore?

Sì e no. Il centro del pezzo è proprio il “Microchip” del titolo. Ho visto che negli Stati Uniti li puoi ordinare, per appunto metterli nella testa dei figli e così, dicono, “proteggerli”. Lo trovo raggelante, e lo dico proprio da genitore. Anche perché fa passare l’idea dell’utilità di essere controllati già sottopelle… Nonché il concetto che il mondo fa paura. E perché fa paura? Non è forse che è comodo amplificarci questa sensazione per qualche scopo diverso?

 

Ma come mai si è messo a scrivere canzoni?

“Mi giravano in testa questi due-tre pezzi, inizialmente non volevo neanche cantarli io ma proporli ad altri. Però sono troppo particolari. E al contempo non volevo scriverne altri per arrivare per forza a un disco completo: dunque ho inciso i tre pronti e intorno ho creato un album spero variopinto.

 

Quindi non ha scritto null’altro, non pensa di diventare cantautore?

Ne ho scritta un’altra, in verità, di canzone. Parlava del cuore, non era una canzone d’amore ma ne trattava da altri punti di vista. E però era troppo seria, non la sentivo su di me. Diventare cantautore? Non penso sia il mio futuro. A Sanremo ci andrò volentieri, se mi invitano da superospite superpagato: lo scriva, eh… (e ride, nda) Ma adesso ho un progetto teatrale, “La Regina Dada”, che sarà all’Elfo Puccini di Milano, all’Eliseo di Roma e in tour nella prossima primavera. Poi ho idee classiche in testa, ma stavolta vorrei tirare le orchestre dalla mia parte come feci nel 2004 in “Concertone”. Trovare un territorio comune fra me e loro, più che entrare io in quello dell’orchestra come fatto col Maestro Chailly.

 

E la televisione? Il suo programma riprenderà?

Siamo in attesa di saperlo. Però sono contento perché quell’esperienza in Rai comunque è andata in porto, pur superando tantissime difficoltà. Tantissime. Mi cambiavano le proposte, c’era la pretesa di sapere cosa vuole la gente. Poi la popolarità raggiunta mi ha permesso di far conoscere validi artisti senza bisogno che fossero in promozione. E questa è la mia soddisfazione maggiore: più di ogni nuovo Cd, forse anche di questo nel quale comunque, soprattutto, volevo dire delle cose, e perciò ho persino cantato. Vede, non mi interessa la retorica del far musica. Come nel progetto su Zappa non mi interessava quella del rock come ribellione, provocazione, autodistruzione. Mi interessa solo la musica: non da purista perché mi suona snob camuffare le passioni personali in irrinunciabili filosofie di vita, bensì farla anche davanti al grande pubblico, sempre però sfuggendo le trappole dell’industrializzazione come quelle della cultura alternativa. Che, peraltro, non ho mai capito cosa sia.