Premetto: sono tifoso dell’Inter e Beccalossi è stato il mio mito calcistico. Quello dell’adolescenza et ultra. Quella domenica, tuttavia, il “Becca”, combinò poco o nulla. Le sue finte di corpo e i dribbling a mozzafiato quel giorno rimasero solo nella mia immaginazione. Quell’anno l’Inter perse il derby per uno a zero. Segnò Maldera con un colpo di testa al quarto minuto del secondo tempo. Libero dai compiti di marcatura, per l’espulsione di Altobelli a causa di una gomitata rifilata a Collovati, il numero 3 del Milan insacca dopo un cross di De Vecchi e la sponda di Chiodi. Una capocciata contro la quale Bordon, il portiere dell’Inter, non poté nulla. Era il 12 novembre del 1978, una domenica di sole allo stadio San Siro. Io avevo 15 anni ed era la prima volta che andavo a Milano. Insieme ad altri due amici eravamo partiti da Termoli la sera del venerdì precedente. Ad accompagnarci in stazione era stato il mio padre, cuore nerazzurro, con la sua Opel Kadett color ghiaccio con gli interni in pelle color rosso.
Allora, oltre alle autovetture, anche il calcio era una cosa seria. I calciatori, ad esempio, non avevano i capelli scolpiti a siepe e quei crestoni da punk fuori tempo massimo che invece portano ora. Le partite cominciavano tutte alla stessa ora: alle 14,30 in inverno e alle 15 in primavera, e lo spezzatino a cui assistiamo oggi, quello fatto di anticipi e posticipi, di partite che iniziano il venerdì e vanno avanti al sabato, alla domenica e al lunedì, era impensabile.
La diretta non esisteva ma tutto era poeticamente molto più vivo delle immagini a ciclo continuo di questo tempo presente. Le voci di Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Claudio Ferretti, Alfredo Provenzali, Ezio Luzzi uscivano dalle radioline a transistor come istantanee fresche di stampa. Immagini nitide di cross, lanci, traversoni, dribbling, calci d’angolo, punizioni, rigori, affondi, tunnel, rovesciate, pallonetti, gol e autogol, che oggi non basterebbero tutte le parabole del mondo e i decoder messi insieme per fare uno solo di quei fotogrammi pennellati alla radio.
Alla stazione Garibaldi arrivammo, la mattina del sabato, e ci venne a prendere un aitante trentenne del mio paese che aveva sposato da poco la bellissima zia di uno dei miei due compagni d’avventura. Lui e lei vivevano nell’hinterland milanese, per la precisione a Cernusco sul Naviglio. Patria dei “liberi”, come si diceva allora. In quel posto, infatti, erano nati il povero Gaetano Scirea, libero della Juventus e della Nazionale che morirà undici anni dopo, in un incidente stradale, lungo una anonima strada polacca; di Cernusco è Roberto Galbiati che giocò invece con l’Inter prima e la Fiorentina poi. Di quel sabato pre partita ricordo il pomeriggio. La mia prima volta in un grande magazzino, la METRO, e le scarpe in tela bianca, marca Superga, che comprai a 12mila lire. Poi tutto si perde nella nebulosa dei trentasette passati anni da allora. Tranne tre cose, che mi restano nitide e imprese nella memoria.
La prima. Io col mio giubbotto elasticizzato della Elleessse: blu scuro, con bande laterali rosse. Io fermo a bordo campo, immediatamente dietro alla recinzione del campo da gioco. Io che vedo a due passi l’arbitro Michelotti di Parma mentre caccia Altobelli dopo il fallo evidentissimo su Collovati.
Io che vedo Maldera che scappa a Scanziani e mette la palla alle spalle di Bordon. Ecco, questo è il primo ricordo nitido, quello di me allo stadio, nel settore Distinti, e quello di me all’uscita da San Siro mentre mi trovo davanti un ultras del Milan, capelloni riccioli biondi, con occhiali da sole e un tubo innocenti tra le mani. Erano anni violenti quelli. Ovunque si fosse si respirava un clima da guerriglia urbana. Ricordo questo, dentro e fuori dallo stadio.
Le immagini poi si spostano al giorno dopo. E’ questo il secondo ricordo. Stazione di Milano Rogoredo. Il Diretto per Lecce fermo sulle rotaie, immobile, immerso nella nebbia fitta, davanti a un semaforo rosso. Poi il finimondo. Un botto da dietro, il vagone che si solleva e le valigie che ci cascano addosso. Paura impressionante. Erano anni di bombe, terrorismo, attentati. Anni di morte e di morti. E purtroppo quel giorno, in quel momento, due vite si spensero nell’attimo stesso del frastuono provocato dalle lamiere spezzate. A tamponare il treno Milano – Lecce fu un convoglio di undici carrozze vuoto. I due macchinisti non ci videro per via della nebbia. La loro strada si fermò lì per sempre: era la mattina del 13 novembre 1978.
L’ultimo ricordo, il terzo, non è un’immagine ma una canzone. “Una Donna Per Amico”, di Lucio Battisti e Mogol. Una canzone che dava il titolo all’album uscito poche settimane prima, nell’ottobre del ’78. Stasera, a molto tempo da allora, in uno dei miei tanti viaggi a caccia di musica dentro la rete, quella canzone è riemersa dal deposito della memoria e s’è portata dietro tutta la catena dei ricordi. Milano, San Siro, l’Inter e il Milan, il mio giubbotto blu e rosso, mio padre ancora giovane, l’Opel Kadett, le scarpe Superga, la METRO, Cernusco sul Naviglio, Altobelli, Michelotti, Maldera, la nebbia, il treno che si solleva, i morti, la paura e quella canzone. Di nuovo. Una Donna Per Amico. L’ho tenuta in mente tutto il viaggio, mentre il treno correva nella notte da Termoli a Milano e fuori passavano le luci, le finestre, le file di case, i fari delle automobili puntati sulla strada. Mi ricordo così, con gli occhi dietro al finestrino, che sogno le finte di Beccalossi e una donna per amico. Mi ricordo così, ora che sono io a fare questo dribbling nella memoria.