Ho un’amica che è convinta che la magia d’Irlanda abiti tutta nel suo cielo. Qualcosa d’indescrivibile a parole, che colora le scogliere e le colline coperte dall’erica in fiore. Probabilmente è davvero così, anche se i miei occhi scettici mi fanno pensare a quei paesaggi del nord come avvolti dalle nuvole e bagnati dalla pioggia, che solo ogni tanto lascia spazio a qualche squarcio d’azzurro e di sereno.
E Milano, questa sera, non mi appare neppure così diversa, umida e fredda in quest’inizio d’autunno che, per giunta, non l’ha neppure colorata, lasciandola ancora una volta immobile nel suo perenne grigiore. Solo il traffico non smette mai di dimostrare tutta la sua nevrotica vitalità, ma questa è l’unica cosa, capace di rinnovarsi ogni giorno, che perderei volentieri in un istante.
Alcatraz, noto locale milanese, è un’isola, allora, dove approdare felicemente, tanto più che sul palco, appena entrati dentro, campeggia la grancassa di una batteria, dove sta scritto che “Save a soul” – salvare un’anima – è la “mission” del giorno. Un’anima, anche una sola, in mezzo alla folla di gente che, poco a poco, riempie il luogo dove assistere al nuovo ritorno di Glen Hansard in concerto. Un’anima sola è sufficiente, così come un singolo spicchio di cielo può bastare a rasserenare mille giornate piene di affanni.
Che Glen possa fare un grande show, francamente un po’ te l’aspetti. Lo conosci troppo bene, tante sono state le sue frequentazioni dalle nostre parti, ed hai imparato ormai da tempo ad apprezzarlo dai suoi dischi. Dapprincipio quelli con i Frames, poi sotto forma di quella felice alchimia che portava il nome di Swell Season, la collaborazione di Hansard con Marketa Irglova, che supera lo spazio della vittoria di un Oscar e di un film – il magnifico Once – e prosegue sulle tracce di un altrettanto splendido lavoro, Strict Joy.
Glen che poi prosegue lungo la sua strada, approda al primo disco solista – Rhythm And Repose, del 2012 – e, passando per il tributo alle canzoni del compianto Jason Molina, giunge al secondo, quel Didn’t He Ramble pubblicato da poco. Che quell’uomo, con le sue canzoni, possa mostrarti davvero un cuore, non rinchiuso dentro di esse, ma gettato fuori in mezzo agli altri mille cuori che cantano e danzano con lui, te l’aspetti anche stavolta. Glen Hansard, che con la sua incredibile voce, la mimica del suo viso, i gesti del corpo mentre canta e suona, è capace di passare dalla tristezza di un’anima folk, immersa nelle ballate d’Irlanda fino al midollo, al furore ed alla baldanza d’improvvise accelerazioni di vero e proprio stampo punk.
Un’attitudine rock, più ancora che un genere, che, in altre parole, significa fare i conti con sincerità con ogni punto interrogativo dell’esistenza e con la propria esigenza di felicità, senza patine false e sdolcinate, vernici d’acquarello pronte ad essere lavate via dalla prima pioggia del mattino; per vivere da fuorilegge devi essere onesto, cantava Bob Dylan: stare di fronte alla realtà senza sottili falsità e facili conformismi non è esercizio da poco per nessuno.
Grace Beneath The Pines è la prima canzone del concerto di stasera, brano d’apertura anche del disco nuovo, quella che si stacca dalle altre per le sonorità dolcemente impreziosite. La voce di Hansard è già calda, inizia subito ad arrampicarsi sulle vette abituali. Winning Streak e My Little Ruin arrivano subito dopo; non saranno le uniche, tratte dal nuovo lavoro: più tardi ascolteremo McCormack’s Wall e Lowly Deserter, che musicalmente ci fanno passare senza soluzione di continuità dall’Irlanda all’America di Pete Seeger, fino alla splendida Her Mercy, con quelle liriche che parlano di limite e di perdono e che nella mia mente suscitano il pensiero che è solo quando sperimenti d’aver toccato il fondo che l’esigenza di redenzione diventa desiderio sincero che affiora nella vita.
Mi accorgo che quelle sensazioni che, ascoltando le canzoni del nuovo disco, si erano mescolate ad un pizzico di delusione, sonorità ed idee dal gusto di qualcosa già sentito, dal vivo scompaiono del tutto. Le canzoni di Didn’t He Ramble si miscelano ai brani più belli di Rhythm And Repose – High Hope e Bird Of Sorrow splendidamente interpretate anche stasera – generando un’affascinante armonia d’insieme. Emozioni che si affacciano lungo il cammino di un concerto, ventiquattro brani per due ore e mezza di show, che passa di continuo da momenti di straordinaria intimità e dolcezza ad altri in cui l’energia viene prepotentemente allo scoperto. Non è solo la voce e la musica di Glen a costringere a questi passaggi da ottovolante da uno stato d’animo all’altro. E’ la drammaticità stessa dell’esistenza, dell’amore sognato e di quello deluso, della gioia e del rimpianto, che colorano le sue canzoni, ma che dipingono invariabilmente gli animi di molti. I brani scelti dal repertorio di Swell Season e Frames – tra essi una splendida When Your Mind’s Made Up – presentati anch’essi insieme alle canzoni degli album da solista, sono parte dello stesso percorso, musicale ed esistenziale. La variabilità della scaletta da un concerto all’altro, nel corso di questo tour di Hansard, poi fa il resto. Questa sera ci viene regalata anche una cover di Bruce Springsteen, una Drive All Night che il pubblico canta da subito in coro.
Tra una canzone e l’altra Glen si lascia spesso andare a lunghe chiacchierate. Mette a dura prova la nostra capacità di comprensione della lingua inglese, ma dice tutto del suo desiderio di comunicare le proprie esperienze ed emozioni. Anche adesso che è famoso, ama di tanto in tanto suonare per le strade di Dublino (lo ha fatto anche a Bologna, dopo il concerto in quella città, ndr), solo con la sua chitarra proprio come il suonatore di strada delle prime sequenze di Once. Non mi stupisce che ciò possa essere accaduto per davvero. Così come non stupisce più che egli salti giù spesso in mezzo al pubblico, per cantare qualcosa in modalità “unplugged”; questa sera ci regala Say It To Me Now e Gold, comparendo all’improvviso, dopo che le luci sono calate sul palco al termine della prima parte del concerto, insieme al fido chitarrista dei Frames, con il quale intona anche una Happy Birthday e, non pago abbastanza, porge una torta che il povero malcapitato vede solo per pochi istanti prima che Glen gliela spiaccichi in faccia tra l’ilarità generale.
E di lì a poco non stupisce neppure, anche se comunque piacevolmente sorprende, che faccia salire sul palco una spettatrice disabile, che, dalla propria carrozzina, duetta con lui, in modo forse poco intonato, ma certamente commovente, sulle note di una Falling Slowly che non ci stancheremo mai abbastanza di sentire. I grazie che Hansard ripete spesso tra una canzone e l’altra non sono allora semplici modi di dire. Tutto ciò che accade sotto i nostri occhi racconta di una gioia sincera nel fare quello che, nonostante tutto, rappresenta ancora lo scopo di ogni musicista sincero: l’esigenza del raccontare di sé, nella semplicità dello stare insieme per condividere qualcosa.
Prima degli ultimi due brani, c’è tempo per far salire sul palco The Lost Brothers, il bravissimo duo irlandese costituito da Mark McCausland ed Oisin Leech, poco conosciuto dalle nostre parti, ma già sulle scene da qualche anno e che ha aperto il concerto prima di Glen Hansard. Raccontano al pubblico quanto siano affezionati al nostro paese ed in particolare a Napoli, dove hanno soggiornato per un po’ di tempo ed ora ci regalano la loroHello Beautiful ed un’incantevole cover di Corrina Corrina del tradizionale ripreso anche da Bob Dylan, prima di scivolare in un’inattesa quanto piacevolmente sorprendente versione di Bella Ciao.
Le ultime due canzoni di Glen sono la perla preziosa da tenere stretta con sé prima di andare via. This Gift, che parte lenta, intima ed acustica, per diventare irresistibilmente elettrica e serrata, con Hansard che posa la chitarra e salta sul palco quasi indemoniato, arrivando a buttarsi addosso una bottiglia d’acqua al termine del brano e poi The Auld Triangle, cover del celebre brano di Brendan Behan, struggente ballata irlandese che racconta di un condannato a morte, in cui i singoli musicisti della band e persino tecnici del suono, la cui voce non ha nulla da invidiare a quello dello stesso Hansard, si alternano davanti al microfono per cantarne una strofa.
E’ la giusta apoteosi finale di un concerto in cui Glen, ancora una volta, non ha deluso. I sorrisi sul palco si sprecano, i musicisti ringraziano e vanno via. Mia moglie ed io lasciamo defluire un po’ la folla, andiamo a salutare gli amici, c’è pure l’insegnante madrelingua di mio figlio: dice un buonasera dall’affascinate accento inglese, accompagnato da un sorriso tutto italiano. Gli operai hanno transennato lo spazio intorno al palco e stanno già smontando tutto, noi usciamo fuori, avvolti dalle ombre scure della notte, anche se verrebbe da scommettere che là sopra, da qualche parte, un pezzetto del cielo d’Irlanda abbia preso il posto del nostro. Penso a quella batteria, con sopra scritto “Save a soul mission”: scommetto che sarà l’ultima ad essere portata via. Un’anima soltanto, solo una: in fondo anche San Patrizio quando giunse in Irlanda più di mille anni fa, non credo avesse grandi ambizioni personali, fidandosi solo del lavoro svolto da un Altro. Uno dei suoi scritti rimasti famosi recita così: “sia la strada al tuo fianco, il vento sempre alle tue spalle, che il sole splenda caldo sul tuo viso e la pioggia cada dolce nei campi attorno. E finchè non ci incontreremo di nuovo, possa Dio proteggerti nel palmo della sua mano”. E’ bello tornare a casa, anche stasera.