Il blues è un genere musicale longevo, anche se non sempre riesce a proporre un ricambio all’altezza delle aspettative degli appassionati. Per fortuna tra gli alti e i bassi della storia, escono ogni tanto dalla fucina delle sue dodici battute nomi capaci di sorprendere ed entusiasmare. Dall’officina del blues è sbucato quest’anno Sugaray Rayford – all’anagrafe Caron Nimoy Rayford – 46enne texano trapiantato in California, che gli appassionati conoscono già come vocalist dei Mannish Boys, forse la band di migliore groove e qualità degli ultimi dieci anni. 



Sugaray è cantante ed autore di poderosi dimensioni fisiche, il classico bluesman del Sud nato in una famiglia di ristrettissime condizioni economiche, con anni ed anni trascorsi andando con la nonna ogni giorno alla celebrazione della Bethel Temple Church of God In Christ di Tyler, centro agrario a un centinaio di miglia da Dallas (negli States queste cose – famiglia indigente, ragazzino che cresce cantando alle celebrazioni religiose – non sono solo racconti confinati agli anni ’40, ma vicende reali di questi nostri ultimi decenni). 



Non è un novellino, Sugaray Rayford, viste le tante collaborazioni e gli anni passati già on-stage, ma il suo secondo album, Southside (uscito subito dopo l’estate), è un disco di rarissimo equilibrio e di poliedrica confezione. Ci sono strepitose soul blues ballad (Call off the Mission e Live to Love Again), ringhiosi blues texani (Texas Bluesman e Miss Thang), sofferte ballad (Take Away these Blues). Fanno capolino scenari funky (All I Think About), ma anche le slide guitars e le ambientazioni acustiche che ci riportano dalle parti del Delta (Take It To The Bank) mostrando nel complesso una signora band (Ralph Carter al basso, Gino Matteo alle chitarre, Leo Dombecky alle tastiere, Lavelle Jones alla batteria, Allan Walker e Gary Bivona ai fiati), capace di assecondare il leader in ogni sfumatura del suo poderoso carattere. 



Southside of Town e Take Away These Blues sono forse i due brani e le due interpretazioni migliori per il bluesman texano:  Sugaray canta in modo perfetto, con una voce pastosa e abrasiva, spesso ricordando Junior Wells, Solomon Burke (qui forse stanno le sue maggiori influenze, sia dal punto di vista vocale che da quello compositivo) ed Albert King, alternando Memphis a Chicago, spruzzando di raffinatezze quelle penombre sonore che nel blues non devono mai mancare. E quando la conclusione dell’album arriva, dopo solo dieci brani, con un lentissimo, torrido, ammiccante e sornione bluesy, Slow Motion, la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un album destinato a rimanere nel tempo, e forse finalmente a portare a casa di una “piccola star” quel Grammy-Blues che negli ultimi anni è andato a grandi artisti – la Tedeschi-Trucks Band, Dr.John, Charlie Musselwhite e Ben Harper, Johnny Winter – ma quasi mai ha premiato… “un certo tipo di bluesman”, di minor peso commerciale rispetto a quelli citati. 

Si diceva che la fucina del blues, anche quando non sembra in grande produzione, sforna sul mercato bei dischi e bei nomi. Di Sugaray Rayford abbiamo già detto, ma allora meglio non perdere l’appuntamento con Ruthie Foster (anche lei texana, blueswoman che non sbaglia mai un colpo, autrice nel 2011 di un favoloso Live at Antone’s), con Gary Clark Jr (chitarrista di Austin, che quest’anno ha piazzato un ottimo Story of Sonny Boy Slim, un mix di rock, delta blues, gospel e roots music), con Shemekia Copeland (l’ultimo Outskirts of Love è un lavoro stellare, con citazioni da ZZ Top e rock-blues venato di gospel music) e con Eric Gales (Good for Sumthin è il suo più recente lavoro, datato 2014, un potente compendio di rock-blues hendrixiano) che forse sono le nuove forze di una generazione che variamente sta sotto i 50anni. Per chi vuole anche andare a cercare tra gli absolute beginners under30, attenzione anche ai nomi di Selwyn Birchwood (30enne dalla Florida, bel suono chitarristico) e di Shawn Holt (figlio di Memphis Slim, ma già virtuoso rock-blues): ragazzacci che hanno già un Blues Music Award nel palmares. 

Il tutto a conferma che magari non saranno più i tempi della Blues invasion, dei Blues Brothers o di Stevie Ray Vaughan, ma il cuore del blues non smette di pulsare. E continua a contagiare i poveri di spirito: a volte basta relativamente poco per far godere chi cerca musica, ritmi e voci di qualità.