“Ogni sera c’è del rossetto sulla sua camicia, ogni mattina lei lo lava via. Aveva sentito dire che in ogni vita una parte della vita stessa deve cadere, così lei passa la sua serata pregando che arrivi un po’ di quella pioggia del sud” (Southern Rain, Cowboy Junkies). Se Flannery O’Connor fosse stata una cantante rock, sicuramente avrebbe militato nei Cowboy Junkies, prendendo il posto della deliziosa e brava Margo Timmins come vocalist della band. Soprattutto, avrebbe scritto i testi delle canzoni di quel gruppo. In realtà li scrive benissimo Michael Timmins, chitarrista e songwriter quasi unico della band canadese. Southern Rain fa parte di un disco, “Black Eyed Man” che per molti versi incarna misteriosamente lo spirito della grande scrittrice americana.
Non è l’unico, Michael Timmins, ad aver incarnato quello spirito in campo rock. Flannery O’Connor è una delle maggiori influenze in certo songwriting rock, da Bruce Springsteen a Nick Cave a Bono degli U2 per citare le super star, fino a Jim White, Mary Gauthier, Natalie Merchant e Lucinda Williams per dire di quelli che hanno avuto riscontri commerciali meno eclatanti. Anche Rob Zombie, cantante e regista cinematografico di film horror ha attinto, portandolo all’ecceso, in quel folklore sudista dal sapore gotico e noir che la O’Connor rese in libri e racconti memorabili.
Ma che cosa una band composta da tre fratelli e un amico canadesi abbiano saputo individuare nella scrittrice non lo sapremo mai, ma d’altro canto non importa neanche. Non sappiamo neanche se Michael Timmins abbia letto e apprezzato quei libri, sta di fatto che in “Black Eyed Man” salta all’occhio una corrispondenza con molti dei racconti della O’Connor. C’è un tratto distintivo che accomuna tutti gli autori rock che in qualche modo si possono avvicinare alla scrittrice e che si ritrova in questo disco: avere il coraggio di andare a curiosare negli angoli più oscuri del cuore dell’uomo, in quei posti dove il male e la violenza, fosse anche per pochi istanti, inabitano e si manifestano.
“Black Eyed Man”, titolo del disco dei Junkies uscito nel 1992, d’altro canto sarebbe stato un titolo perfetto anche per Flannery, un titolo evocatore ad esempio di Parker’s Back, La schiena di Parker. Che cosa è infatti un “uomo dall’occhio nero” se non una persona che sta al confine tra peccato e redenzione, con un piede negli inferi e il capo piegato indietro a vedere se c’è ancora il suo angelo custode a porgergli la mano? Lo stesso tipo di personaggio che fa capolino in quel racconto della O’Connor, un uomo che rifiuta la fede, odia la moglie e si nasconde dal mondo.
“Black Eyed Man”, a parte “The Trinity Sessions” e il suo seguito di vent’anni dopo, è sicuramente il disco migliore della band a molti livelli. C’è un senso di esultanza e comunione musicale, di eccitazione e di sperimentazione che non si ritrova in nessun altro dei pur bei dischi dei Junkies. E’ facile avvertirlo nella musica che sgorga rigogliosa, nella voglia di cantare e di suonare che ogni musicista ci mette dentro ed è la cifra che fa sì che un disco sia migliore degli altri, quel senso di ispirazione che corre fresco e viene fuori a ogni singola nota. In “Black Eyed Man” i Cowboy Junkies si immergono con competenza ma anche umiltà nel grande fiume della musica americana: ballate country, dolenti valzer, blues sferragliante, suoni dixieland, umori profondamente folk. E’ un linguaggio sonico totalmente americano, seppur declinato con le caratteristiche della modernità rock. Come se i Sonic Youth avessero inciso le loro cose migliori a Nashville. Il tutto con il loro marchio inconfondibile fatto di minimalismo sonico a cui Michael Timmins regala questa volta sferzate chitarristiche metropolitane, potenti e viscerali. Naturalmente il collante di tutto è la voce eterea, spirituale, malinconica e sognante di Margo che in questo disco raggiunge il suo vertice in Townes’ Blues dedicata a Townes Van Zandt che nello stesso disco regala al gruppo canadese una ode, anzi un lamento dolorosissimo, Cowboys Junkies Lament. A concludere il cerchio, i Junkies incidono la sua To Live is to Fly che diventa poi la chiave di lettura di tutto il disco.
“Black Eyed Man” è il disco che avrebbe potuto comporre Flannery O’Connor. Come hanno detto loro stessi, “il disco ha un tema lirico preciso, che è quello dell’amore trovato, perso e tradito, il viaggio dell’Uomo dall’occhio nero, un uomo perseguitato, senza volto e senza nome”.
I Cowboy Junkies sono canadesi, lontani anni luce dall’immaginario profondamente sudista della O’Connor, anche se il luogo che avevano scelto per incidere il loro primo capolavoro, la chiesetta della Trinità, un edificio in stile gotico in mezzo ai grattacieli di Toronto, avrebbe fatto impazzire di piacere la scrittrice della Georgia. Che cosa sia esattamente un americano poi nessuno lo sa ed è impossibile dirlo, tanto un americano è un mix di razze, religioni e culture spesso agli antipodi fra loro. Sorta di Frankestein culturale, quest’americano immaginario dai campi di cotone del sud degli States può essersi benissimo trasferito a nord, oltre confine, a Toronto ad esempio. E sarebbe perfettamente giustificabile, tanto quello che rende l’americano tale è in fondo una cosa sola: l’irrequietezza del vivere. Lo spostamento continuo che da sempre lo caratterizza da un luogo all’altro alla ricerca di una pace che è impossibile trovare ovunque, ma che lo spinge a muoversi ugualmente alla sua ricerca facendo della ricerca stessa il significato esistenziale ultimo, più che la possibilità di trovarla. E’ il comun denominatore che lega Parker, un tossico cowboy canadese e Virgil Caine, il protagonista di The Night They Drove All Dixie Down di The Band.
Come The Band, quattro musicisti canadesi e uno dell’Arkansas che si erano immersi nell’America dei tempi della Guerra di secessione ricavandone uno dei ritratti più pregnanti e commoventi, i Junkies qui si immergono nell’America degli anni 30 e 40 del Novecento. Le vie della grande musica sono misteriose e si aprono a percorsi inaspettati dando vita a opere come queste. Un disco come questo, uscito originariamente quasi trent’anni fa, si apre a scenari che allora erano nascosti e indicibili. Vive una vita nuova, consegna un mondo sonoro e lirico del tutto inedito. E’ questo rivelarsi improvviso e inaspettato che fa sì che un idsco, anche decenni dopo la sua uscita, sia un grande disco.
Non è un caso che allora in questo disco appaia un cantautore che se La schiena di Paker fosse stato un film, avrebbe potuto recitarne la parte del protagonista, il texano Townes Van Zandt, morto appena cinquantenne dopo aver scritto alcune delle più belle canzoni della storia della musica d’autore e aver sperperato soldi e talento nelle sale da gioco di tutta America, una bottiglia di whiskey e un mazzo di carte sempre nelle mani, perfetto epigono del Parker di Flannery O’Connor: peccato, vita intesa come una maledizione e presenza di segni che rimandano a una redenzione possibile.
Chi è Parker e perché il suo fantasma si incarna nel Black Eyed Man? “Parker, un ragazzotto «massiccio, leale, ordinario come una pagnotta», a una fiera di paese, vede un uomo coperto di tatuaggi dalla testa ai piedi. Finché non aveva visto l’uomo della fiera, non gli era mai venuto in mente che ci fosse qualcosa di straordinario, nel fatto di esistere. E non gli venne in mente neanche allora, però un singolare disagio mise radici dentro di lui. Era come un ragazzo cieco, girato con tanta delicatezza da non accorgersi che la sua destinazione era cambiata (…) Nel tatuaggio, segno-sigillo impresso nella carne, Parker intuisce inaspettatamente un elemento di rottura, un rimando ad una dimensione altra, extra-ordinaria. Una dimensione prima di allora sconosciuta e solo ora percepita a tentoni: una conoscenza che ha a che fare con lo stupore e con la meraviglia provati dal fatto dell’essere al mondo. L’intuizione, insomma, di una trascendenza di cui carne e corpo sono il veicolo” (Elena Buia Rott, La schiena di Parker).
Il minimalismo americano dei Cowboy Junkies reclama la stessa trascendenza incarnata. Quella di Parker è una sfida al bigottismo e al perbenismo religioso moralista della moglie, una donna per cui l’esperienza della fede deve essere custodita il più lontano possibile da ogni possibile contaminazione: anche la chiesa intesa come edificio è passibile di questa contaminazione. Parker le sbatte davanti il tatuaggio di un Cristo bizantino che si è fatto sulla schiena come una sfida. Cristo è se si incarna, altrimenti è una fandonia, è sempre stata la sfida lanciata dalla O’Connor ai moralisti dell’America in cui viveva, presenti oggi più che mai.
Allo stesso modo i protagonisti di queste canzoni sono dei perdenti, travolti dal cinismo spietato di una vita che inesorabilmente succhia il loro desiderio di felicità attraverso una negazione esperenziale del desiderio stesso. Lasciarsi annichilire dalla ripetitività dello squallore quotidiano è l’unica risposta che sembra loro possibile. La sposa tradita in modo sistematico che rimpiange la pioggia del suo sud; Suzy, anche lei figlia di un sud devastato, tra bigotti che celebrano la domenica mattina in chiesa e redneck che celebrano con bicchieri di gin “perché là a nord c’è una prigione che ho imparato a chiamare mia e a sud un fiume che lava via i peccati, e un college a est dove imparare dove cominciano i peccati e un cimitero a ovest”. C’è anche un omicidio, accade durante Murder, Tonight, In The Trailer Park.
A questo punto arriva l’uomo dall’occhio nero, che si è addossa la colpa di aver avvelenato l’acqua del pozzo quando in realtà aveva solo svelato l’inganno della comunità: “disse alla gente radunata davanti a lui, non è l’acqua la cosa sbagliata qui”. Il black eyed man è quasi una figura cristologica, colui che dà la propria vita per la salvezza degli altri. C’è qualcosa che la durezza della vita lascia trapelare, un oltre e un più grande, ma lo rifiutiamo, sembra dire.
Altre canzoni, altre vite soffocate, altre storie perdute, altro dolore, che si agitano tra le strade polverose dalle colline dell’Oregon all’Alabama. C’è anche il tempo per uno scherzo apparente che è più di uno scherzo,If I Was the Woman and You Were The Man, se io ero la donna e tu l’uomo. Margo Timmins duetta con John Prine, altra figura cantautorale legata a una visione del mondo dove il bambino orfano, il veterano del Vietnam che muore di overdose, il rifiutato, l’anziano abbandonato dai figli e il perdente sopravvivono destreggiandosi in qualche modo. L’uomo è un vagabondo di natura, instabile e sfruttatore della bellezza per i propri fini; la donna è mistero e anche la meta definitiva a cui aspiriamo. Alla fine del suo vagabondaggio, l’uomo arriva a capire che per aspirare alla pietà ed esserne degno, ha bisogno di stare con lei. “Se io fossi il cuore e tu la testa, penseresti a me come qualcuno molto sciocco, se un giorno avrò deciso di abbattere queste mura che mi circondano solo per vedere dove portano questi sentimenti, se io fossi il cuore e tu la testa? Se io ero la donna e tu eri l’uomo, ti farei ridere se tu venissi da me con il cuore in mano e dicesti: ti offro questo liberamente e ti darò tutto quello che posso perché tu sei la donna e io l’uomo?”. Raramente, forse mai, una canzone come If You Were the Woman and Was the Man ha toccato così profondamente il mistero della donna e dell’uomo, inteso come grazia salvifica.
“L’umanità messa in scena dalla scrittrice georgiana, nella sua paradossale e ossessiva ricerca di Dio, è esposta ad un orizzonte smisurato e imprevedibile; si sperimenta come possibilità infinita, come domanda temuta, ma reale e inevitabile sulla trascendenza: «Dio si imprime nell’uomo come bisogno, desiderio. Dio è lo Streben dell’uomo, è il suo spasmodico tendere». Il familiare e il quotidiano non la proteggono dalla trascendenza con cui è impastata: quell’infinità inquietante la trascina e la condanna, volente o nolente, a fare i conti con il mistero” (articolo cit.). Alla fine del disco, l’uomo con l’occhio nero, Townes Parker, ha ancora qualcosa da dire ed è una rivelazione, uno squarcio di serenità dopo tanta oppressione: “Abbiamo tutti dei buchi da riempire e quei buchi sono tutto ciò che è reale ma la scelta è tua, il tempo da prendere è tuo”. Come Parker alla fine capisce che quel Cristo che si è fatto tatuare sulla schiena è l’unico modo perché questa incarnazione desiderata si realizzi, To Live is To Fly con quel colpo secco di batteria che dischiude un cantato quasi gospel che si innalza altissimo in cielo con una purezza devastante, è la dichiarazione di un oltre finalmente accettato, ma la scelta dipende unicamente da te, nessuno può farlo al posto tuo: “Vivere è volare, in basso e in alto, allora smuovi la polvere dalle tue ali e il sonno dai tuoi occhi”. Inizia a vivere, con quello che comporta, alti e bassi. Le note sfumano nel suono di una big band da qualche parte tra New Orleans e l’Alabama, un gruppo di uomini e donne percorrono idealmente una strada resa polverosa dal vento che la percuote andando dietro al feretro di Parker, nuvole nere si radunano in cielo, la banda si allontana con un eco premonitore. Il disco finisce.
A Good Man is Hard to Find scriveva Flannery O’Connor, un uomo buono è difficile da trovare, perché l’uomo buono e basta non esiste. Esiste l’uomo impegnato con la sua umanità, tra tane cadute da cui si rialza, continuamente. Da qualche parte tra i solchi di questo disco c’è un uomo buono che ognuno di noi deve scoprire. Da solo, perché nessun altro lo può fare al nostro posto. Rialzandosi continuamente.