Joe Jackson si è sempre distinto per quel solido atteggiamento di fondo votato a stupire e a spiazzare di default, interprete costante del ruolo del bastian contrario anche di se stesso se necessario. Fatto assodato sin dai tempi di due dei suoi assi d’autore, “Night and Day” e “Body and Soul”. Correva il primo lustro degli ’80 e forse per un malinteso senso dell’inusitato e dell’insolito, il nostro annaspava di lì a poco in un “Will Power” autentico vademecum – ben oltre i limiti del naïf – della divagazione strumentale senza capo né coda. Poi nella sua seconda maniera avanzata con le diavolerie metaclassiche di “Heaven and Hell”, le riesumazioni post-punk dei primi anni zero o – quando ci prendeva bene – editando in versione decimata performance live di alto livello (tour di “Night and Day 2” su tutti).
La linea di demarcazione concettuale che separa il nuovo album di inediti “Fast Forward” dall’antecedente “Rain” datato 2008, è in realtà rinvenibile nelle stesse parole dell’autore dal palco dell’ultimo tour. Quel Jackson dell’azzardo ellingtoniano di “The Duke“, presentò – quasi scusandosi – l’unico estratto da “Rain” (al tempo l’ultimo album di inediti a tutti gli effetti) liquidandolo come lavoro non riuscito non fosse altro perché quasi completamente ignorato.
Una sorta di rassegnazione che dissimulava una consapevolezza piuttosto sfasata del discrimine tra urgenza artistica e ricatto sempre incombente del consenso. Quel “Rain” rimane in realtà il grande disco del Jackson tarda maniera, un ideale contenitore allestito in forma aritmetica ed ispirata di tutte le sue anime contrapposte dagli esordi alle successive e camaleontiche evoluzioni. Punk ritagliato in codice boogie, ballate d’autore struggenti e cariche, pagine spigliate di pop, jazz e atmosfere da club di grande metropoli. Con il potere del trio a livelli di indiscutibile eccellenza.
Proprio questa coscienza inferma rispetto al valore del suo recente passato sembra aver pesantemente condizionato la menzionata svolta tematica a monte del nuovo “Fast Forward”. Per rimontare in sella alla sua pluridecennale avventura artistica e riguadagnare il proscenio in termini di visibilità anche solo critica, il nostro se ne esce con un album che nelle intenzioni si propone di scavalcare l’idea stessa di concept per addentrarsi nell’ultra-concettuale o meglio ancora nel pluri-concettuale. Dalle celebri quattro stagioni alla musica per quattro nazioni o quasi. Quattro città, tre nazioni. Partenza e arrivo negli States con transito in Europa. Da New York a New Orleans, passando per Amsterdam e Berlino, due megalopoli, una grande metropoli. Destinazione finale una città simbolo di quella provincia americana intrisa di poesia ed esistenze sull’orlo dell’abisso, una manciata di istantanee catturate in altrettanti viaggi intrapresi da Jackson.
New York, per anni casa artistica dell’autore, a giocare oggi come ieri quale referente musicale primario di buona parte della produzione (dal primo al secondo “Night and Day” passando per la mini opera rock “Blaze of Glory”). Tutto ciò sembra riflettersi appieno nell’impatto del nostro con le realtà metropolitane messe a tema. Da britannico trapiantato per lunghi anni in quel della Grande Mela, il suo è un approccio sonoro che tradisce e smaschera in continuazione il suo amore per le grandiose ambientazioni che mescolano cinema, letteratura e musica.
Fast Forward, title track che avanza con maestria sorniona su un unico registro con un sottile mix di narrativo e variazione vocale; If It Wasn’t for You, pop da manuale del songwriter fruitore incallito di vecchie stazioni radio; See No Evil, cover dei Television resa tra riff e ruvidezze debitrici dell’urban power di “Big World”; King of The City, big ballad per accordi gravidi e caldi di piano elettrico, drum box, armonie corali, frasi sospese e ripartenze in surplace di rara efficacia. Dal brano introduttivo all’ultimo della fase newyorchese, Jackson snocciola prerogative, malizie e acutezza del calarsi nel ruolo del songwriter americano doc. Assi del calibro di Bill Frisell alla chitarra, Graham Maby al basso e Regina Carter al violino apparecchiano il suono. Quello che parrebbe annunciarsi come l’inizio di una cavalcata trionfale, in realtà non si rivela tale. Sin dalla fermata Amsterdam le arti del grande temporeggiatore prendono il sopravvento. Con il supporto degli Zuco 103 e della Concertgebouw Orchestra un Jackson conformista di sé stesso, versatile e navigato nell’indugiare tra generi e suoni, infagotta dall’amata America una A Little Smile (singolo estivo anticipatore) reminiscente della radiofonicità di Happy Ending per poi adagiarsi nei risvolti soffici e anonimi di certi ’80. So You Say ne rappresenta un passo emblematico con una melodia che oscilla tra minore e maggiore senza prendere mai una direzione decisa, quasi in perfetta contraddizione con il titolo dell’album. Unico vero sussulto il world emozionale di Far Away. In tandem con l’esilità adolescente della voce di Mitchell Sink, sembra letteralmente di essere in compagnia dell’epic europop dei nostri Novecento.
Neppure la tappa berlinese si discosta molto da queste coordinate. Qui troviamo Greg Cohen e Earl Harvin rispettivamente a basso e batteria ma Junkie Diva è nulla più che un piacevole protocollo di atmosfere maudit, If I Could See Your Face un crossover tra jazz, Bach e cliches dal sapore decadente. Piuttosto il meglio viene dalla seconda cover presente su disco, una Good Bye Jonny che vede un classico del kabarrett mitteleuropeo, rallentato e modellato da Jackson in una gustosa pastiche tra profondi anni’30 e ballatona nostalgica da dopoguerra americano. Un indubbio tocco da maestro.
La marcata discontinuità del disco non viene neppure smentita dall’epilogo di New Orleans dove l’autore, confermando il trend interculturale del lavoro, si produce nel buon assalto urban-punk di Neon Rain ma manca il bersaglio nelle due canzoni successive che non riescono a discostarsi dalle solite coordinate di un pop ammiccante e rifinito a dovere. Un vero peccato vista la sfavillante brigata di artisti locali ospiti (i Galactic e l’ensemble fiatistico di Donald Harrison), ma il grande guizzo arriva in extremis con una Ode to Joy accuratamente studiata come grande colpo a sensazione. Qui come raramente altrove l’artista eclettico torna a scatenare le sue antiche elucubrazioni su pentagramma. Spigliatissima melodia vocale, radiosi riff sintetici, spumeggianti rimpalli con la sezione fiati per una riuscita girandola di contaminazioni che riporta ai tempi che furono. Jackson sembra avvertirlo e si invola in un canto pieno di un entusiasmo contagioso e quasi fanciullesco. Che sia forse questo l’agognato “avanzamento veloce”?
In definitiva il nostro lungi dal vincere la scommessa di rendere coerente un racconto fin troppo ambizioso, sembra fare il punto sul suo songwriting optando per una panoramica allargata che non riesce ad evitare l’insidia di troppe fasi interlocutorie. Il titolo potrebbe quindi alludere a una “veloce scorsa” sulla multiformità del proprio repertorio, chissà. Bicchiere nonostante tutto mezzo pieno? Forse sì, almeno in quella metà che vede un Jackson ispirato e in grado di tirare fuori tre grandi canzoni e un paio di ottimi brani. Altrove in scampoli che presentano almeno una o più intuizioni all’altezza della fama (il chorus di Poor Thing e alcune inconfondibili rifiniture in brani non certo indimenticabili come Junkie Diva). Di certo un talento ancora in grado di comunicare una visione profonda d’autore e stimolare un ascolto musicale fuori dagli schemi. Vederlo insieme al grande compagno di tante grandi avventure Graham Maby e al resto di una band che a questo giro annovera Teddy Kumpel alla chitarra e Doug Yowell alla batteria, sarà un piacere antico e allo stesso tempo del tutto nuovo.
(Nota dell’autore: ha collaborato alla stesura dell’articolo Pierluca Mancuso)