E’ molto bello vedere un grande teatro dell’opera (il Costanzi di Roma, detto ‘Costanzone ’dagli amici proprio per la sua capienza) pieno di giovani (saranno stati almeno il 20% degli spettatori – alcuni in jeans ma molti in abito scuro e pure qualche smoking) ad una prima operistica. Tanto più che non si trattava di un titolo noto, di repertorio, ma di Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny (Ascesa e caduta della città di Mahagonny) , l’unica vera e propria opera creata dal duo Bertold Brecht e Kurt Weill.



Un’opera di rara esecuzione. Considerata dall’ideologo culturale nazista Jospeh Goebbles  musica degenerata, ne vennero bruciate tutte le copie del libretto e della partitura su cui le milizie hitleriane riuscirono a mettere le mani. In esilio, negli Stati Uniti, Weill e Brecht ne approntarono una nuova versione, in inglese e interamente sulla base della loro memoria, pensando più a Broadway che al Metropolitan (dove non sarebbe mai stata accettata). Ciò comportò cambiamenti nella vocalità (con voci più adatte alla commedia musicale che alla lirica, e una drastica revisione dell’orchestrazione).



Di questa versione sono circolate varie edizioni. Negli Anni Sessanta, Giorgio Strehler ne mise in scena uno versione al Piccolo Teatro di Milano, che andò in tournée in mezza Italia: era in lingua italiana ed aveva un forte impianto politico. Di recente si è vista a Napoli in dialetto partenopeo. Tuttavia negli Anni Ottanta venne trovata un copia del lavoro quale eseguito nel 1927 a Dresda e dal 1988 si dispone di un’edizione critica in tedesco. 

Anche, sempre in italiano, è stata presentata in versione ‘operistica’ alla Piccola Scala, l’opera in testo e vocalità prossime all’originale si ricorda principalmente una produzione del 2005, quando venne proposto un allestimento di Daniele Abbado, uno sforzo comune dell’Opera di Roma, dei Teatri di Reggio Emilia e del Petruzzelli di Bari. Ricordo un cast internazionale di ottimo livello. Specialmente brava l’orchestra, diretta da Jonathan Webb,



Ma torniamo ai giovani in sala. Hanno certamente visto (e spero goduto) uno spettacolo insolito in quanto la regia di Graham Vick – è una coproduzione con La Fenice ed il Palau de Les Arts Reina Sofia di Valencia – si distanzia dall’originale (senza cambiare una sola battuta). Nella concezione del 1927, l’opera è un apologo, tipico della concezione brechtiana di teatro eroico (volto a scaldare politicamente gli spettatori) dell’ascesa e del crollo del capitalismo che allora era molto più graffiante di oggi. 

Tre malviventi in fuga creano una città dove tutto è permesso tranne non avere denaro; la nuova città (per l’appunto Mahagonny) attira delinquenti, prostitute, avventurieri, cercatori d’oro, e via discorrendo; Jim Mahoney è condannato all’impiccagione non per avere assassinato e derubato ma per non avere saldato un debito di gioco; ma proprio il giorno dell’impiccagione, scoppia una rivolta che porta alla distruzione della città. Nel lavoro di Weill e Brecht (concepito in tre atti, il primo di un’ora e gli altri due di 40 minuti ciascuno) il lasso di anni dalla nascita alla distruzione di Mahagonny è relativamente breve. 

Nella regia di Graham Vick di questa produzioni, i tre giovani avanzi di galera del primo atto invecchiano; nel terzo atto hanno i capelli bianchi e uno di loro (sexy al primo atto) è in carrozzella. Dopo l’esecuzione di Jim, la rivolta è dei giovani, stanchi e stufi di una società che offre solo da mangiare, bere e fornicare. 

Nel 1928-30 Brecht e Weill erano due giovani trentenni che assistevano al disfacimento della Repubblica di Weimar. Il loro rappresentare tale disfacimento (con una musica, tra l’altro, piena di accenti timbrici ricavati dallo studio del jazz americano) non piaceva ai nazisti, che quindi ne impedirono la messa in scena. Ma – come bene interpretato da Vick – il lavoro tratta dell’utopia impossibile, soprattutto in una “città ideale” dove tutto è permesso (e dove tutto, dal sesso ai peccati di gola, è estremo), basta avere i soldi. 

Andiamo alla parte musicale. Alcuni colleghi hanno trovato ‘moscia’ la bacchetta di John Axelrod; a mio parere, una direzione più stringata o con maggiori sonorità avrebbe fatto perdere di vista (per chi conosce il tedesco; per gli altri c’erano i sovra-titoli ) il superbo lavoro di fusione tra parole e note. E non avrebbe fatto percepire i ‘motivi conduttori’ della partitura. Ottime le voci, specialmente gli interpreti principali, Iris Vermillion, sir Willard White, Measha Brueggergosman e Brenden Gunnell- ed il gruppo di mini attori.