Nelle ultime settimane la musica è tornata a essere grande protagonista alla televisione. Non è una cosa da poco per un paese come il nostro dove la musica in televisione non ha mai avuto lo spazio che merita, relegata a improponbili sfide di imitatori, marmocchi che starnazzano grandi classici, festival fuori del tempo, per non dire dei talent show che la musica invece di farla amare l’ammazzano. No, diciamo la grande musica, quella dal vivo senza playback e bimbominkia, quella che ha attraversato quattro e anche cinque decenni di storia del costume, quella cantata da gente che sa cantare e che sa scriverle, le canzoni.
Prima è stato il concerto anniversario di Francesco De Gregori che ha festeggiato all’Arena di Verona i 40 anni dall’uscita del suo disco più popolare e venduto, Rimmel. Poi per ben due serate i capitani coraggiosi Gianni Morandi e Claudio Baglioni. Due autentici eventi, emozionanti, che ci hanno fatto ricordare a noi esterofili inguaribili che una volta anche in Italia si faceva grande musica.
Se una critica si può e si deve fare, è stata in entrambe l’occasione l’imbarazzante sfilata di ospiti, quasi gli stessi in tutte e due le occasioni per di più. Appiccicati a cantanti con cui non hanno nulla a che fare per storia, capacità artistiche, hanno abbassato di molto la piacevolezza degli eventi con la loro manifesta inferiorità. Si sa come funzionano queste cose: manager, agenzie di promozione, fame di share a tutti i costi, scambi e favori, e soprattutto tante balle da parte dei protagonisti stessi (unico loro neo in questi due eventi) per giustificare la presenza di ragazzotti che non sanno cantare ma devono esserci altrimenti di loro ci si dimentica il giorno dopo che finisce il talent di turno.
Essere a casa a seguire questi eventi per una volta è stata una fortuna: bastava cambiare canale. Inutile fare i nomi, è come sparare sulla croce rossa, tanto lo sapete chi erano. Inutili come un palo della luce senza lampadina, stonati, sguaiati e volgari.
Altro fastidio & disgusto, come direbbe qualcuno, è stato nel tentativo di Baglioni e Morandi di dare una patina di impegno quello stile Rai 3 uno stile che sa ormai di stantio e onestamente ha rotto le scatole a tutti. invitando una sera Neri Marcorè e Geppi Cucciari (i nomi qui li facciamo) impacciati e pretenziosi, e l’altra l’ormai inguardabile coppia Fazio-Littizzetto, impalati come quattro mummie del mausoleo di Lenin, hanno sfornato il solito buonismo cattocomunista infarcito di banalità di cui la Rai non può fare a meno, democristiana e comunista come anacronisticamente è ancora oggi.
Ma a noi interessa la musica. Capitani coraggiosi è stato uno spettacolo di altissima classe, un canto del cigno della più autentica canzone pop(olare) italiana. I due vecchietti hanno mostrato cosa voleva dire una volta quando una casa discografica ti faceva fare un disco perché avevi una bella voce e sapevi usarla e non perché sei un caso umano (suore, gay, finti gay, orfani e quant’altro). Oddio, Baglioni come ormai fa da un po’ di anni ha forse esagerato con i suoi acuti stornellati, con quel vibrato a metà tra pseudo cantante di lirica e cantore de Trastevere, ma glielo perdoniamo a fronte di un repertorio che ancora oggi suona straordinariamente bello.
Perché sì, diciamolo senza remore: tutti noi di una certa età sicuramente ci emozionavamo e ci esaltavamo quando alzavamo il pugno chiuso mentre Guccini cantava la Locomotiva, ma poi tornavamo a casa pensando a quella ragazzina che ci aveva dato il due di picche e mettevamo su il 45 giri di Questo piccolo grande amore piangendo piccole lacrime di malinconia. Non c’è da vergognarsi, perché è di questo che siamo fatti come esseri umani. Lo diceva anche Carlo Marx d’altro canto: passo tutto il giorno a cercare di cambiare il mondo e poi quando torno a casa mi manca sentirmi amato. Allora l’ideologia ci obbligava a mentire anche sui nostri piaceri musicali, oggi finalmente possiamo dire che E tu o Un mondo d’amore sono canzoni dannatamente belle. E Sabato pomeriggio e Poster hanno saputo esprimere la solitudine dell’uomo moderno meglio di tante altre canzoni di “cantautori impegnati”, e Occhi di ragazza e Scende la pioggia fanno battere il cuore.
I due, sulla carta una accoppiata su cui nessuno avrebbe scommesso un euro, hanno dimostrato di trovarsi benissimo insieme: umili, divertenti, simpatici, pronti a prendersi in giro. Anche questo manca alle stelline usa e getta dei talent. E hanno sfoderato due repertori imbattibili, accompagnati da una orchestra stile Broadway o da soli al pianoforte e la chitarra.
E quando alla fine hanno salutato con Strada facendo, bella, imponente, coraggiosa, e C’era un ragazzo che come me me a ava i Beatles e i Rolling Stones ci hanno fatto passare davanti le nostre vite e ci hanno commossi.
E’ stato il canto del cigno dell’autentica canzone leggera e popolare italiana. Una lezione per certi colleghi che riempiono gli stadi pensando di essere Bruce Springsteen o i Rolling Stones, eterni americani immaginari che assomigliano di più all’Alberto Sordi di Un americano a Roma che ai loro idoli, quasi vergognandosi di essere italiani.
La canzone italiana, quella che oggi nessuno sa più fare, è qualcosa di cui essere orgogliosi: Modugno, Jannacci, Mina, Sergio Endrigo, Fred Bongusto per dirne alcuni, ma quale altro paese li può vantare?