Sono le tre di notte e mi sono svegliato per caso, ieri sera sono andato a dormire molto presto. Trovo sul cellulare alcuni messaggi del direttore, non capisco. Accendo il televisore e vedo l’orrore per le strade di Parigi.
Al Bataclan sarei voluto andarci un sacco di volte. Uno dei locali rock più affascinanti di Parigi, un cartellone sempre esaltante. Il nostro collaboratore Lorenzo Randazzo me ne aveva sempre parlato in modo entusiastico e ci aveva anche inviato delle corrispondenze di concerti visti in quel locale.
Un locale che i francesi da tempo chiamano la “Salle de Spectacle Mythique”, la sala dello spettacolo mitico. Tutte le sale per concerti rock sono a modo loro mitiche. Lo sa chi le frequenta, il sottoscritto da quando aveva 17 anni ha passato più tempo in sale per concerti rock che in qualunque altro posto, probabilmente anche di casa sua. Ci si va cercando qualcosa di unico, speciale e appunto mitico. Qualcosa che per la breve durata del tempo di un concerto fermi il tempo stesso. Ci si va per incontrare quell’ineffabile mistero che solo la musica rock, negli ultimi 50 anni, ha saputo suscitare nelle persone. Ci si va per lasciarsi fuori per un paio d’ore la fatica e la miseria della vita quotidiana, per credere che per due ore là dentro noi siamo veramente quello che vorremmo essere sempre e il nostro cuore si riempia di quel desiderio che fuori di quelle sale tutto e tutti cercando di affossare. E’ l’incontro dei cuori con il cuore e lasciamo perdere i luoghi comuni di sesso droga e rock’n’roll. Di quelle tre cose ce n’è di più dentro il palazzo di una multinazionale o dentro il parlamento.
L’altra sera si esibivano gli americani Eagles of Death Metal, un gruppo strano che non ha un organico preciso (e che nonostante il nome non suona il genere “death metal”, anzi ironizza fin dal nome su quel genere estremo, adolescenziale, banalmente e platealmente satanico). Infatti il leader della band, il carismatico Josh Homme non c’era neanche l’altra sera. Un gruppo nato per la pura gioia di suonare, in libertà, che si scambia i musicisti con altre band. Il loro nome adesso assume un significato terrificante e profetico dopo quello che è successo al loro concerto: le aquile della morte di metallo. La morte che è entrata nelle mura del Bataclan con armi di metallo. Un cortocircuito esoterico, una invocazione. Una coincidenza e basta, ovviamente.
Quasi cento ragazzi sono stati massacrati, anzi giustiziati, uno a uno pochi minuti dopo che il concerto era finito. La loro colpa era essere andati a un concerto rock.
Fa specie vedere che gli obbiettivi degli attentati di Parigi siano stati una sala per concerti rock, i tavolini dei ristoranti, lo stadio di calcio. Potevano tranquillamente scegliere la cattedrale di Notre Dame probabilmente il più significativo e importante edificio religioso della cattolicità europea dopo San Pietro a Roma. L’efficienza tecnologica e militare con cui si muovono questi terroristi non glielo avrebbe certo impedito.
Invece i loro obbiettivi a New York 2001, Madrid 2004, Mosca 2004, Londra 2005, Parigi 2015 non sono mai stati edifici religiosi. Con buona pace di chi parla di guerra di religione, di religioni come il male del mondo e sciocchezze del genere. Lo aveva detto bene il grande filosofo francese morto pochi giorni fa, René Girard: «la violenza che vorremmo attribuire alla religione è in realtà la nostra violenza, e dobbiamo affrontarla direttamente. Trasformare le religioni in capri espiatori della nostra violenza può, alla fine avere solo l’effetto opposto».
Hanno sempre colpito i luoghi del ricco mondo occidentale dove la gente cerca serenità, dove lavora con impegno, dove viene espresso nel bene e nel male quella che è la civiltà occidentale. Che non è certo più cristiana, così come loro non sono islamici.
No, sono figli dell’occidente, prima che dell’islam. Tutti gli autori degli attentati in Europa e ne siamo certi anche quelli dell’altra sera, sono nati e cresciuti qui. Chiusi nei loro ghetti si dirà? Proprio nel giorno delle stragi di Parigi Obama e amici dichiaravano con orgoglio di aver ucciso Jihadi John il boia dell’Isis (come se all’Isis mancassero i boia, dopo averne eliminato uno). La sua storia è arcinota: nato in Kuwait ma cresciuto a Londra, appassionato di rap e musica rock (come i ragazzi massacrati al Bataclan), ottimo studente, aveva chiamato il suo gruppo di amici terroristi “i Beatles”, non “quelli di Maometto”.
L’ideologia post islamica che regna nel califfato dell’orrore cerca questi “avanzi”, questi diseredati, questi figli dell’occidente per mettere in mano loro un mitra e una cintura esplosiva. Ma non sono avanzi dei ghetti. Sono identici a noi borghesi occidentali. Personaggi che il “sogno occidentale” di una felicità fatta di benessere economico, carrierismo e divertimenti sempre più effimeri ha reso come cani rabbiosi in attesa di qualcuno che mettesse loro un mitra in mano. Non è dell’Isis che dobbiamo avere paura, ma di noi stessi. Non c’è molta differenza tra quello che è successo a Parigi l’altra sera e le stragi nei campus universitari americani.
Adesso sono le sei di mattina e guardo sconcertato un vecchio disco degli Eagles of Death Metal che ho a casa. Uno della band ha raccontato che pochi minuti dopo aver smesso di suonare ha visto due uomini vestiti di nero mettersi a sparare sui ragazzi. Qualcuno del pubblico ha pensato che quelle esplosioni facessero parte dello spettacolo. Poi li hanno “giustiziati”. Uccisi perché il loro cuore era ancora aperto alle possibilità della vita. Quelli che hanno ucciso avevano chiuso il cuore da tempo. E una volta che chiudi il cuore, tutto può succedere. Anche l’orrore più indecente. Guardo il disco che ho in mano e mi domando se dopo questa notte la musica rock potrà ancora tenere aperto il mio cuore, se andrò ancora ai concerti. Io voglio che il mio cuore resti aperto, sempre, nonostante il mio stesso male che cerca di chiudermelo continuamente. E prego che il cuore di tutti, anche degli assassini, possa tornare ad aprirsi.