Una figurazione blues arpeggiata apre in solitaria, segue una veemente frase tribale. Voci nere dal riverbero massiccio (ottenute tramite processing) insistono su un tamburo basso africano offrendo l’assist a un canto che riprende il riff introduttivo. Ora la canzone è un pop-rock cantautorale d’alta scuola con arrangiamenti d’archi che insinuano contromelodie acute e sinistre. Con There is a Drum si apre l’album “The Sound and The Fury” della cantautrice angloindiana Nerina Pallot, manifesto ideale del malessere ribelle ai tempi del grande smarrimento.
Il disco nasce da lontano segnando un punto di svolta inatteso per l’autrice di grandi canzoni quali Idaho e Everybody’s Gone to War. Con alle spalle due ottimi album come “The Graduate” e “Year of The Wolf” restava da capire dove l’abilità della nostra di destreggiarsi tra generi e muse ispiratrici, potesse ispirare la maturazione definitiva e compiuta di uno stile e un’indole già forti e riconoscibili. La Pallot l’ha fatto in maniera impensabile ideando – nel 2014 – The Year of EP’s, annata interamente dedicata alla pubblicazione di un EP al mese di cinque canzoni ciascuno, dodici EP in tutto di cui undici composti di brani interamente nuovi. Al momento parve un eccesso. L’impressione iniziale di un esercizio di brillante scrittura cedeva al quarto EP e la formula – e con essa il songwriting – sembrava mostrare la corda rasentando la pubblicazione indiscriminata di materiale di qualsiasi grado e qualità. Da circa metà a tre quarti del progetto emergevano le cose migliori, scampoli di grandi intuizioni, ma le perplessità rimanevano.
Con l’arrivo del 2015 l’apparente assurdità si chiarisce. L’englishwoman intende pubblicare un nuovo “proper album” entro la fine dell’anno e a tal fine sarebbero state selezionate e rielaborate le cose migliori incluse negli EP pubblicati. Piccolo colpo d’ingegno insomma. Per un anno la Pallot – senza dirlo chiaramente – ha virtualmente aperto agli appassionati le porte dello studio di registrazione, permettendo di seguire quasi in tempo reale le fasi di un processo creativo culminato nel disco in questione e il risultato sembra darle piena ragione. Otto brani provengono dalle sessioni citate, tre vengono composti ed elaborati nell’anno in corso. Nelle note di copertina la cantautrice svela ancora che l’intenzione originaria era quella di un side project suo e del marito Andy Chatterley produttore/tastierista/coordinatore di questo e dei due precedenti lavori.
“The Sound and The Fury” è un disco di amore, delirio, rabbia e sopravvivenza come la provocazione di questi tempi maldestri e confusi esige. Vi scorre l’essenza profonda di uno spirito umano che persiste e reclama un senso al tutto. Qui ci si ricollega all’incipit di There is a Drum, grondante di ritmi arcaici e suoni irruenti. Il morbo terroristico, il senso di impotenza, l’invocazione al giudizio di un dio anche sconosciuto come necessità fisica. Ain’t Got Anything Left segue a ruota afferrandone la scia. Il giro di chitarra ora è acustico e danzante con cori in apnea che sembrano ruotare intorno alla melodia, la batteria che scalpita irregolare e la scrittura ancora agilissima portano la canzone su un teso e vivace registro malinconico.
Rousseau, primo singolo e brano più noto dalle sessioni di The Year of EP’s, prende volutamente spunto dalla The Jungle Line mitchelliana con la sua originale pretesa poetica di condensare il mondo, le sue contraddizioni e la sua bellezza in una canzone di quattro minuti. Un originalissimo timbro rettilineo di chitarra acustica modella una canzone che rivede al rialzo ascisse e ordinate del pop radiofonico di gran classe.
Con If I Had a Girl la Pallot tira fuori una straordinaria piece da songwriter di razza dove dal primo all’ultimo istante il brano sembra letteralmente delinearsi al cospetto dell’ascoltatore. Handclap rivoltosi aprono il campo a un blues-spiritual con la voce della protagonista che si srotola sensuale, rabbiosa e incendiaria. Giocato efficacemente in chiave contemporanea, si respira un profondo umore black che viene ripreso più avanti in Spirit Walks con un retrogusto di speranza che rimpiazza l’indignazione della protest song. Differenti sfumature di racconto enfatizzano ora l’ipocrisia delle convenzioni ora l’ingiustizia del dolore quali antecedenti necessari della bellezza. Un’ampiezza tematica confermata da una The Road (il cui videoclip ha preceduto di due mesi l’uscita dell’album) dove i suoni si discostano dalla Pallot classica. Elettronica, afro beat e riff vocale ipnotico concorrono a creare un sfondo d’effetto di una canzone che sfrutta l’input letterario mccarthyano per un taglio di stringente attualità.
Il pianoforte dell’autrice – meno onnipresente che in passato – è per parte sua protagonista di due grandi slow su sperdutezza e senso personale di miseria. Boy on The Bus, passo intenso e dolente da un’iniziale sequenza art-rock a un secco cambio di registro, Handle vigile e attendista che esplode in una seconda parte carica di archi insanamente ciclici. E ancora Big White House ennesimo pezzo di bravura per senso di costruzione e interpretazione di ballate dalle tinte forti e scure. Battito ritmico in primo piano e una voce che in questo disco si definisce una volta di più come decisamente originale e inconfondibile per forza drammatica, fascino e timbro cristallino.
In un lavoro che non concede tregua né pacificazione a buon mercato, Blessed si apre con l’incipit del T.S. Eliot di “Wasteland” in un mood di vago relax prima di The Longest Memory, riflessione conclusiva su significati e contraddizioni di due visioni opposte del recente passato inglese. L’autrice si congeda giocando ad effetto con un epic minimalista gremito di archi in minore e ritmica ambient in appoggio a un canto alto e diseguale, il tenore narrativo sa di confessione di ultima solitudine, l’outro sonoro lascia intravedere un vago sentore di speranza, in definitiva si ricomincia sempre.