Non era “The Next Day” il vero album del ritorno di David Bowie. A pensarci bene non poteva proprio esserlo. In fondo un album piacevole, quasi buono,  sicuramente il migliore dalla fine degli anni ‘90 (considerando nella lista “Hours..”, il disco perduto “Toy”, “Heathen” e il malriuscito “Reality”), con diverse eccellenti canzoni, alcune sopra la media, reminiscenze profuse a iosa dei “golden years” del passato, e con una copertina mutilata nel volto, col titolo volutamente cancellato con una riga apposta ad arte, della celeberrima cover del capolavoro “Heroes”, quasi a segnalare che quell’epoca era definitivamente alle spalle, sperduta in un passato che non sarebbe mai più tornato.



“The Next Day” era un album di musica pop confezionato nel migliore dei modi, mai banale, con una campagna pubblicitaria azzeccatissima, estremamente godibile e accattivante. Ideale per un ritorno sulle scene dopo un silenzio discografico lungo dieci anni, trascorsi lontano dai riflettori. I video dei singoli erano praticamente perfetti, dai ricordi berlinesi struggenti di “Where Are We Now”, alla quotidianità stravolta di “The Stars (Are Out Tonight)”, passando per la provocazione anticlericale di “The Next Day” e le pallottole minacciose di “Valentine Day”. Insomma tutto ok. Novità? Nessuna.



Poteva Bowie giocare a dadi col suo passato? Ritornare per il breve spazio di un “come eravamo”, quasi “ le beau geste”, l’estremo saluto di un artista epico, che aveva ispirato almeno tre generazioni di musicisti? No, non poteva. In fondo il gioco di quel disco era proprio questo: segnalare che ciò che sarebbe venuto dopo quell’album sarebbe stato tutt’altra cosa. “Il giorno seguente”, cioè, sarebbe stato completamente differente. L’antipasto sarebbe stato servito con dovizia di particolari l’anno seguente, nel 2014, con il singolo “Sue (Or In A Season Of Crime)” e il suo retro “Tis’ A Pity She was A Whore” , brani che non avevano nulla a che fare con la musicalità “pop” di “The Next Day” e aprivano nuove prospettive in termini di ricerca e di approcci musicali. Uscito con l’antologia “Nothing Has Changed”, il singolo indicava chiaramente che David Bowie era altrove. Musica jazz ed elettronica si alternavano nei due nuovi brani, quasi a voler confondere le idee, o quantomeno ad indicare una duplice traiettoria. Solo uno spunto, quasi un duplice segnale che qualcosa era in gestazione.



L’annuncio del lancio del nuovo album, che uscirà il giorno del compleanno di Bowie, il prossimo 8 gennaio 2016, e del nuovo singolo, “Black Star”, uscito on line giovedì 19 novembre, è stato dato dai maggiori mezzi di informazione britannici, dal “Times” al “ Daily Mail”, precedendo l’ufficio stampa dell’artista inglese, quasi come fossero stati tacitamente “delegati” a farlo. Il singolo “Black Star” è la colonna sonora di una serie di telefilm “ The Last Panthers”, creata da Jack Thorne .

La visione del video su Youtube ha fatto registrare un vero e proprio “botto” in fatto di collegamenti on line.

Occorre subito dire che a livello musicale e di immagini siamo in un mondo estremamente differente dalle canzoni e dai video di “The Next Day”. Ci troviamo proiettati su un pianeta da incubo, nei cui cieli si staglia minaccioso un buco nero al posto del sole (Black Star, appunto). Nel video fanno capolino elementi esoterici, simbolismi che si avvicendano fra riti iniziatici e tragici riferimenti alla passione di Cristo, il tutto cantato e descritto con  versi estremamente ermetici da un David Bowie che appare inizialmente bendato, quasi la triste immagine dell’uomo contemporaneo, accecato dall’eclissi del sacro, che trova la sua sublimazione definitiva nella dispersione del Divino in un mondo che sembra avviato verso una  tragedia finale di dimensioni cosmiche.

Colpisce all’inizio il cadavere oramai ridotto a semplice scheletro di un’astronauta. I fan di vecchia data non potranno che pensare al destino di Major Tom, l’astronauta disperso di Space Oddity, il primo successo del Duca della fine degli anni 60, che veniva citato anche in “Ashes To Ashes”, canzone manifesto del 1980, tratta da quel “Scary Monsters” che aveva chiuso alla grande la “golden age” bowiana. Da quel cadavere viene staccato il teschio, intarsiato di pietre preziose, da parte di una donna, che non è però terrestre, essendo dotata di una coda che si muove quasi sensualmente ad ogni suo passo. Circondata da altre ragazze, sembra fare la funzione di una sacerdotessa pagana, che omaggia il teschio dell’astronauta, chiuso in una teca,  quasi come fosse una reliquia religiosa. Il ritmo del brano è ipnotico, con la batteria in primo piano e la voce di Bowie in falsetto. Due ragazzi, uno bianco ed uno nero, ballano, a torso nudo, come se fossero stati ipnotizzati oppure contagiati da qualcosa di misterioso che sembra aleggiare nell’aria. Dietro di loro una  donna, anche lei preda dello stesso ballo dei due giovani. Il suono lontano di un sassofono e le tastiere colorano di mistero lo scarno ritmo del brano. Echi elettronici di voci e di cori. Lo scheletro dell’astronauta, senza la tuta che lo ricopriva, fluttua verso il buco nero mutilato del suo capo. Segno di un passato di cui oramai muore pure il ricordo.

A metà del brano l’atmosfera sonora si dilata. Nel video Bowie appare adesso senza alcuna benda sul volto. Il suo sguardo è duro, il volto quasi feroce, un’espressione determinata e senza tentennamenti, al limite della fierezza, mentre brandisce come un’arma un libro, sulla cui copertina è impressa l’immagine di un pentacolo completamente nero. La musica cambia di colpo. Sembra che una nuova canzone si inserisca nella trama principale. Una melodia dolcissima, come le migliori del repertorio del Duca, inframezzata da cori che ripetono in continuazione “I am a Black Star”. Bowie appare come un uomo del passato, intrappolato in un presente che non gli appartiene più, che gli appare alieno, senza speranza, che lo costringe ad un canto talvolta disperato, talvolta ironico, al limite dello sberleffo. In un campo appaiono tre spaventapasseri. Colpisce il fatto che siano proprio tre, con le braccia e la posa dei corpi che ricorda maledettamente quella di tre uomini crocifissi. Si dimenano, mossi da un vento che muove anche le foglie dell’erba e degli arbusti che li circondano. Poi l’atmosfera ritorna ad essere quella iniziale. Bowie riappare bendato, e viene quasi da credere che la parte centrale del video sia stata semplicemente un ricordo, un sogno, l’estremo grido di dolore di un uomo che si opponeva al dilagante effetto di un male che colpiva il suo mondo. L’atmosfera si fa sempre più lugubre, e quel rito pagano officiato dalla ragazza con la coda giunge al suo compimento. Domina la scena una gigantesca candela che si consuma poco alla volta, simbolo di un tempo che corre veloce verso la sua fine. Forse il compimento di un’era. Entra un nuovo essere, che sembra a metà strada fra un vegetale ed un animale, quasi un mostro degno degli incubi di Lovecraft, che depone il teschio intarsiato di gemme sulla schiena di una donna, di fronte ai tre spaventapasseri, che sembrano avere preso una propria vita, e gridare al vento la propria impotente disperazione.

Musicalmente il brano si allontana anni luce da qualsiasi cosa Bowie ha  fatto fino ad oggi. Non parliamo di musica rock, non parliamo di elettronica, benché gli strumenti elettronici ci siano, e accompagnino i suoni degli strumenti a fiato che dominano le parti soliste del lungo brano. Se vogliamo trovare una costante, un punto di riferimento, la possiamo trovare nella lunghezza e nella struttura del brano, che si compone di tre parti e dura circa una decina di minuti. Il riferimento più evidente va a “Station To Station”, altra grandissima canzone di Bowie,  anch’essa della medesima durata e con la stessa costruzione in tre parti. Non solo: nel testo di “Station To Station” veniva citata la Kabbalà ebraica, esplicitamente, attraverso le due sephirot “Keter” e “Malkut”. 

Riferimenti esoterici che si trovano pure nell’altrettanto lunga e articolata “The Width Of A Cicle”, dove veniva citato lo scrittore libanese “Kahlil Gibran “, oppure nella stessa “Sweet Thing”, lungo brano capolavoro del grandioso “Diamond Dogs”, che narrava di un mondo devastato e abitato da orribili creature mutanti, i “cani di diamante” appunto. La stessa ispirazione, si trovava peraltro anche in uno degli ultimi album, “Heathen”, dove l’uomo contemporaneo, oramai fagocitato dal pensiero razionalista aveva fatto a pezzi il sacro. Se ricordate Bowie appariva in copertina con gli occhi senza vita, e all’interno della confezione del cd apparivano le copertine dei libri di Einstein “La teoria della relatività”, di Freud “L’interpretazione dei sogni” e di Nietzsche “La gaia scienza”.

Una curiosità infine: nel testo della canzone viene continuate citata “la villa di Ormen con una candela che è al centro di tutto”. Ormen è il titolo di un romanzo dello scrittore svedese Stig Dagerman, morto suicida nel 1954. Le tematiche delle sue opere sembrano ricalcare in maniera quasi morbosa le suggestioni che emanano da “Black Star”. L’inalienabile aspirazione dell’uomo alla felicità e al riscatto, al diritto di vivere la propria esistenza in questa continua ricerca, pur sapendo che probabilmente tutto ciò non sarà mai possibile. Dagerman vedeva nel silenzio l’arma suprema contro la sopraffazione, perché “non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente”. Un caso?

La risposta a questa e ad altre domande la conosceremo il giorno 8 gennaio 2016, quando uscirà l’album.

Di una sola cosa possiamo essere certi: David Bowie è veramente tornato.