Ha ragione Osvaldo Ardenghi, quando canta con trasporto e anche con commozione la canzone che ha scritto per il “maestro” Enzo Jannacci. Alla fine, dopo il “grazie” per tutto e per tanto, c’è il riconoscimento di un’intera opera umana raccontata attraverso la musica, le canzoni. E’ la vita accettata e descritta con ironia simpatica, malinconica, allegra, a volte persino stupita quasi come se volesse costruire un ossimoro. L’Armando cantato da Jannacci era così buono che “mi buttava giù dal ponte, ma per non bagnarmi tutto, mi buttava dove è asciutto”. Ardenghi conclude il suo “Grazie maestro” dicendo che si tratta di “poesia”.
Enzo Jannacci era una delle persone più discrete che potevi conoscere. Ti entrava nel cuore e nell’anima lentamente ma inesorabilmente. Schietto, diretto, ma con un tratto di gentilezza sincera che ti lasciava stupito dietro a quella voce cresciuta nelle periferie di Milano.
Era un milanese che, già da giovane, comprendeva di rappresentare l’altra faccia dell’Italia paludata e “pallosa” del suo tempo. E, con il passare degli anni, l’alternativa Jannacci è diventata sempre più attuale e dirompente.
Quello che gli altri ti spiegavano (e ti spiegano) con “serenate” di ogni tipo, partendo dal “principio dei tempi” e con “adesso facciamo tutto noi”, lui te lo spiegava con una battuta, con due note di musica che erano grande jazz, con una ballata su un personaggio che era il contraltare al perbenismo insopportabile e dilagante di chi aveva scalato la ricchezza o il benessere e cercava giustificazioni di ogni tipo, magari anche al suo successo, forse anche alla sua insoddisfazione.
Questa sintesi che possedeva nel comprendere, nel capire e nello spiegare, Jannacci la traduceva in autentica poesia. Coglieva un aspetto, che a molti poteva sembrare banale, ma invece rappresentava quasi tutto. E rimaneva sempre se stesso, diretto, schietto, sincero, gentile. Dotato di un’ironia che non sconfinava mai in cinismo.
Alla fine, un simile personaggio ti travolgeva, ti coinvolgeva e non potevi fare a meno di ascoltare e di convivere con la sua musica e le sue parole. Che rimanevano in testa, si fissavano nella memoria come i libri più belli e importanti che avevi letto.
Non ho alcun imbarazzo a dire che i libri di Thomas Mann e di Marcel Proust, che ho letto e leggo quasi con devozione, sono collocati vicino al palo della banda dell’Ortica e all’Armando. Perché se quei grandi mi spiegavano e mi spiegano la fine del capitalismo mercantile, la crisi della cultura europea, oppure la triste caduta dei Guermantes con il trionfo delle madame Verdurin, Enzo Jannacci mi faceva capire, con affettuosa comprensione, gli ultimi, la “roba minima” di una società opulenta, o gli emarginati che, nel mondo del “miracolo economico”, erano costretti a fare il “palo”, sguercio e sordo, di una banda sgangherata di ladri. Jannacci ha rappresentato così, in questo modo, l’ironia benevola del miracolo economico italiano.
Ma poi c’era la “marcia in più” di Enzo Jannacci. La sua eccezionale bravura di musicista, la sua originalissima visione milanese della vita, passavano dall’insinuarsi lentamente e inesorabilmente nell’anima sino alla felicità di un’amicizia e al coinvolgimento più spontaneo.
Lo si è capito sabato sera, alla Sala Verdi del Conservatorio di Milano, dove gli antichi “ragazzi” del maestro e gli amici di ogni età, prima hanno ascoltato con attenzione e poi lentamente, dopo tre ore di grande spettacolo, sono finiti a cantare insieme, in 1500, una delle canzoni più popolari. A ben vedere (veniva in mente) quel finale di spettacolo, non era che un incontro normale con Jannacci. Una volta conosciutisi, una volta spiegati i percorsi umani, non restava che la gioia di vivere e cantare insieme, in modo che l’ironia benevola che ti salva, copra tutte le miserie di questo mondo.
Lo spettacolo di sabato sera è diventato alla fine un autentico incontro con il “maestro” e ha rivelato tutta l’anima autentica di Milano, città ineguagliabile nei contrasti tra modernità e tradizione, tra malinconia e allegria, tra voglia di fare e, nello stesso tempo, se sei sano, di essere benevolmente ironico su quello che hai fatto.
Bisogna solo ringraziare che esista un’associazione culturale come “Quelli che… Enzo Jannacci l’hanno nel cuore”. Una signora, che non è neppure di Milano, Silvia Reggiani, lavora con una passione incredibile perché questo spettacolo giri per l’Italia. Altri amici e compagni di lavoro di Jannacci, come il duo di cabarettisti “Bove&Limardi”, legano i vari passaggi dello spettacolo. I personaggi sono tanti, bravi e sembrano uscire tutti da una scuola che non tramonterà mai. Alla fine se Jannacci è stata l’anima di Milano, ci sarà pure una ragione perché si finisca a cantare tutti in coro e con trasporto. L’anima non muore mai.