Il tempo passa, questo è indubbio, ma talvolta ritorna. E questo è meno certo. Come poi si faccia rivedere e che sembianze assuma, questo davvero è impossibile da capire. 

Ottobre 1999. Dal giugno ’72 era già passato molto tempo e di quell’anno e di quel giorno di cui dirò, v’era solo una traccia fioca nella mia memoria. Era il ricordo di un bambino, legato a una canzone che mio padre ascoltava spesso. Si chiamava “Signora Aquilone” e l’aveva scritta un giovane cantautore romano, Francesco De Gregori. “Signora Aquilone” era uscita proprio in quel lontano 1972, contenuta in un album dalla copertina carica di lutto e tetraggine. L’album era “Theorius Campus”, realizzato insieme ad Antonello Venditti, e per copertina aveva un dipinto di John Everett Millais: l’annegamento di Ofelia, personaggio dell’Amleto shakespeariano.



Allora, nel ’72, il duemila era lontano e nessuno ci pensava. Il secolo adesso invece stava finendo e nell’aria di Firenze, in quell’ottobre del ’99, c’era già un sapore crescente d’addio. Ricordo che era ottobre per una ragione precisa. In direzione Oltrarno, avevo appena scavalcato il ponte di Santa Trinita, e nella busta della spesa attaccata al manubrio della bicicletta portavo mele cotogne e melograni, insieme ad una gustosissima schiacciata con l’uva nera, appena sfornata, imperlata di zucchero a grani e bagnata di succo. La schiacciata con l’uva è una cosa che adoro, per quel suo sapore dolce e leggermente aspro che ti lascia in bocca quando gli acini si spezzano tra i denti. E’ il sapore dell’autunno, asprodolce, come certe donne avvolte dalla melanconia, che ti vien voglia di baciargli prima gli occhi tristi e poi le labbra dolci. L’autunno è una stagione che adoro, per questo suo sapore asprodolce. Un sapore che quella sera era tutto dentro la mia spesa: mele cotogne, melograni e la schiacciata piena d’uva: Sangiovese, dai chicchi neroviolacei, gonfi come capezzoli prima dell’amore.



Quel giorno di un ottobre alla fine del secolo, in direzione Oltrarno, avevo appena scavalcato il ponte di Santa Trinita con la mia bicicletta bianca. Così mi muovevo a Firenze. Vivevo all’angolo tra via Mazzetta e Piazza Santo Spirito e lavorando nella zona del mercato centrale, in via San Zanobi, la bicicletta era il mezzo più comodo (ed anche quello più romantico) per attraversare il centro della città. Dell’autunno, quella sera, portavo a casa anche i primi malanni. Un’influenza che mi saliva dentro senza rimedio. Mi ricordai, in quell’istante, appena superato il ponte e prima di girare in via Santo Spirito, che c’era una farmacia. Era lì, sulla sinistra, appena scavalcato l’Arno. Dentro c’era il farmacista, e questo potevo saperlo già prima. Quello che invece non potevo immaginare, era l’appuntamento che il destino mi aveva dato con un tempo lontano. Esattamente con quel giugno ’72. 



Un tempo in bianco e nero, un tempo televisivo tornato in un attimo. Il cuore umano è una strana macchina, contiene più ricordi che parole, e quel giorno d’ottobre, nel volto di quel farmacista, rividi il tempo andato che brillava come fosse una pietra rotta dentro l’acqua di una vecchia fontana. In realtà non capii subito, ma solo dopo, uscendo, mi parve di risentire quel nome. Fabbricatore. Andrea Fabbricatore. Sul cartellino apposto al camice bianco c’era scritto proprio così: Andrea Fabbricatore. Quella faccia dal sorriso largo e sereno me la rividi in bianco e nero. Chiusa nella cabina di una trasmissione a quiz che tutta la mia generazione, ma non solo, ha scritto a lettere indelebili nell’album della memoria. Quel viso era restato quello visto a molto tempo da allora. Andrea Fabbricatore, campione di Rischiatutto.

Uscendo, il cielo di ottobre era imporporato di rosso e di ocra, e i miei ricordi ad ogni passo bruciavano più della febbre. Fabbricatore … Andrea Fabbricatore … ma … sarà lui? Si, potrebbe, era di Firenze: ripetevo tra me e me mentre la nebbia si alzava dal deposito dei ricordi. Scesi dalla bicicletta e feci la strada a ritroso. Il farmacista al mio rientro era di spalle e quando lo chiamai si girò lentamente, come se anche lui sapesse del magma che risaliva dal cratere della ricordanza. “Dottor Fabbricatore, ma è lei? E’ lei il campione di Rischiatutto?”. Si voltò, con un sorriso benevolo, e io lo rividi come in una visione: giovane e in bianco e nero, dietro al vetro della cabina, mentre Mike Bongiorno gli chiedeva con la sua aria finto stralunata: “Quale busta sceglie, la numero uno, la numero due o la numero tre?”. E lui: “Questa volta la numero uno”. Lui mi sorrise, quasi sorpreso che ancora qualcuno si ricordasse di quel tempo lontano. Fu un attimo, pochi istanti, il tempo di stringergli la mano e di scambiarci un “arrivederci”. Prima di salutarci gli chiesi: “Qual è il suo ricordo più vivo di allora?”. E lui: “Inardi. Massimo Inardi. Un campione, un uomo indimenticabile”. Poi, in farmacia, entrarono due vecchi e io tornai alla mia bici, sulla strada di casa, sotto il cielo porporino di ottobre.

Stasera, immerso nel nuovo secolo, ho cercato e trovato su You Tube il filmato di quel giorno: 10 giugno 1972. La finale di Rischiatutto è “in rete” e io così ho rivisto tutti: Mike, Sabina, Fabbricatore e l’indimenticabile Massimo Inardi, altro eroe nella mia memoria di bambino che quella finale la vinse. Rischiatutto cominciava alle 21:15, sul secondo canale, e io prima che cominciasse mi sentivo emozionato come un passeggero davanti a un treno in partenza. Lo sono ancora oggi e quel 10 giugno 1972, arrivati all’epilogo della puntata, emozionato lo era anche Mike Bongiorno. Con aria rotta dall’emozione disse a Massimo Inardi: “Lei ha la possibilità di chiudere in bellezza, di essere un personaggio di cui forse si parlerà nel duemila, quando si faranno quiz di un altro tipo, si parlerà di un certo Inardi”. 

Sono trascorsi molti anni e molti autunni e il duemila, caro Mike, caro Inardi, caro Fabbricatore, è passato ormai da tempo. Sono trascorsi molti mattini e altrettante primavere, giorni brevi e notti lunghe. Se chiudo gli occhi i miei ricordi sono quelli di un televisore Brionvega a valvole, compagnia di un’Italia rigorosamente in bianco e nero. E se gli occhi li riapro, sento ancora il profumo di melograni e mele cotogne, il sapore della schiacciata all’uva. Piena di Sangiovese e chicchi gonfi come capezzoli prima di fare l’amore. Sento ancora una canzone, parla di un vecchio aquilone che porta una donna nel vento e di lei che lo segue senza fare domande. Anch’io ho smesso da tempo di farne, seguo solo i ricordi come fossero aquiloni.