Un approccio alla canzone oggi da prendere ad esempio per trasparenza e linearità è quello della cantautrice texana Leigh Nash. C’è una grande storia, una rilevante iconografia e un patrimonio di vite, fisionomie e relazioni alla base di questo terzo lavoro solista della voce dei Sixpence None The Richer. C’è innanzitutto uno studio sempre più definito e serio nel catturare dettagli e profondità di un canto mai abbandonato da un retrogusto adolescenziale ma gestito nel tempo con consumata abilità e senso dei tempi drammatici (fondamentale in questo senso “Lost in Transition” ultimo splendido album dei Sixpence None The Richer ).
C’è poi la riscoperta dei riferimenti popolari della nostra, il lascito della musica country tra Texas, Nashville e le moderne sempre più acute contaminazioni folk, blues e rock. E c’è ancora l’amore consolidato, radicato e coltivato a lungo per i riferimenti musicali di una vita, i viaggi, le riscoperte e la presa del testimone di un sound antico come il mondo che l’ha partorito. Patsy Cline e Brenda Lee da un lato con il loro portato di old country combinato alla tradizione del r’n’b orchestrale dei Platters. Il vastissimo patrimonio del moderno folk-rock d’equipe e delle jam vivaci e colorate in seconda battuta con una presenza discreta ma sostanziale.
Tutto questo fa di “The State I’m In” un lavoro smodatamente diretto e leale. Dodici canzoni, trentanove minuti nei quali non c’è di più ne dì meno di ciò che è vitale e irrinunciabile in un bel disco di classico pop-rock. “E il disco che avrei voluto fare sin da quando avevo 14 anni ma avevo bisogno dell’esperienza di una vita per realizzarlo, è la mia versione della musica con cui sono cresciuta con l’enfasi su trovate, melodie e liriche da cuori infranti”.
Lei in copertina con la sua chioma rossa e un look d’altri tempi rimanda al mondo di genitori, avi e ai fermenti artistici recuperati e portati al cuore di un progetto nato e sviluppatosi secondo i canoni in uso del fundraising (la piattaforma direct-to-fan Pledgemusic). Prodotto dal quotato Brendan Benson (musicista e co-leader dei Raconteurs insieme a Jack White), il disco trae beneficio e linfa vitale da una serie di collaborazioni con bravissimi musicisti locali chiamati ad assecondare desideri e intenzioni della nostra.
Ciò si rivela sin dall’introduttiva Spider and The Moth, deliziosa e melanconica elegia che prende spunto da un ricamo pianistico honky tonk. Profondità folk e sussulti d’epoca si sparpagliano e mettono il sigillo anche su una Cruel Heart che dirotta le atmosfere verso un country vintage ricco di accorgimenti da piccola orchestra. Una Nash cresciuta notevolmente negli ultimi anni come autrice, fa tesoro del lungo e fruttuoso sodalizio con il leader e compare nei Sixpence (Matt Slocum) appoggiandosi ad autori abili e navigati nel padroneggiare codici e stilemi di genere.
Nella passionale Chicago fa capolino e gioca da par suo un canto aperto e viscerale, quasi una piccola sinfonia dedicata a cose perdute e compianti. Somebody’s Yesterday aggiunge iniezioni di tex-mex a quel senso nostalgico che attraversa il lavoro trovando il suo apice nella dolce violenza sonora di Tell Me Now Tennessee.
Un lavoro che non disdegna neppure la lusinga delle atmosfere feelgood. Mountain con il suo dilagare di Wurlitzer ed entusiasmanti triangolazioni fiati-violini si impone come uno dei quattro momenti memorabili del disco, What’s Behind Me si mantiene nel mood con un’allegra immersione nei sixties dello ye-ye, dei coretti ammiccanti e del seducente feeling dei beat rallentati.
E se The Promise Break si scopre interlocutoria nel suo ricondurre il tenore country del disco verso certe astuzie pop dei Sixpence, Dreaming Out Loud raggiunge l’apice dell’intensità con una lenta bluesy ballad dove carezze sixties, echi di New Orleans ed epica retrò si rincorrono rincarando un senso di mistero e di incompiutezza. Tre minuti e mezzo forieri di stilettate a fior di pelle che lascianoancora tempo per una title track carrellata di temi e influenze del disco con il tex- mex che qui sposa tipiche soluzioni acustiche, imbeccate elettriche e sviolinate vivaci.
Il finale liberatorio di Doing it Wrong va in pressing con un jingle rock dall’andamento swingato tra stacchi distorti e traccianti d’organo dai profondissimi anni’60.
Respirare di questi tempi alti livelli di sincerità e scioltezza in un disco di canzoni nuove è già una scommessa. Di canzoni che si lasciano ascoltare senza reclamare un coinvolgimento profondo il mondo è pieno. Averne di buone è cosa rara eppure ci si perderebbe il meglio se si tralasciasse di rendere ragione della remota bellezza e del retroterra umano che le hanno concepite. Questo bel disco di Leigh Nash ha tra i suoi vari meriti quello di stimolare la curiosità ad andare a fondo delle sue ragioni e delle sue intime connessioni.