Chi era? E’ da ieri che ci penso, da quando sono scesa in cantina a cercare i pastori e la carta da presepe (tra poco è Natale) e, da una scatola di scarpe, è spuntata questa vecchia fotografia. Anche stanotte, ho aperto gli occhi di colpo e ho pensato chi fosse. Di chi erano quegli occhi? Ecco, questo è esattamente quello che ho pensato. Poi ho acceso la luce, aperto il comodino, e guardato quella vecchia foto dimenticata. E’ una foto strana, sembra che trattenga qualcosa ma non so bene cosa sia. Quella che vedete dietro, seduta in un angolo, con la testa leggermente sollevata e inclinata da un lato, sono io. Davanti ci sono i miei genitori. Sorridono.
E’ una domenica del 1978 e siamo a Cesenatico. Lo so perché c’è scritto dietro alla foto, insieme alla data. E’ domenica, 19 marzo 1978, domenica delle Palme. Da tre giorni le Brigate Rosse hanno rapito Aldo Moro e sterminato i cinque uomini della sua scorta. Io e i miei genitori siamo fermi, chiusi e immobili dentro la 128 Fiat che avevamo all’epoca, e qualcuno ci fotografa da fuori. Non riesco a ricordare chi fosse, ma di certo sarà stato qualcuno che ci conosceva bene. Papà e la mamma sorridono amabilmente, come se dall’altro lato del vetro ci fosse qualcuno a loro familiare.
Solo io ho un’espressione strana, quasi di inquietudine. La stessa che ora mi sento addosso. E’ come se vedessi ancora gli occhi di quel misterioso fotografo, un attimo prima che li poggiasse alla Polaroid e scattasse. Questo lo ricordo bene: quella che aveva tra le mani era una Polaroid. Una di quelle macchine molto popolari all’epoca e che, dopo pochi secondi dallo scatto, già ti permettono di avere la fotografia. Di quell’uomo ora riesco a vedere solo gli occhi. So che è un uomo perché ne intuisce la barba. Anche se la sua immagine è avvolta dalla nebbia del tempo, che sia un uomo si capisce bene.
E mi sembra anche un uomo giovane, perché porta a tracolla una di quelle borse in tolfa che tanto erano di moda in quegli anni. Vedo solo questo, anche se provo a stringere gli occhi. Poi non vedo più nulla, il resto della figura è sfuocata. A parte gli occhi. E’ come se io stessa, in quel momento, mentre lui scattava, avessi a mia volta fotografato un’immagine che per anni ho portato senza saperlo nella memoria. Qualcosa che adesso non riesco più a mettere a fuoco. Proprio come una Polaroid mossa che però è riuscita a fissare solo un dettaglio: gli occhi. Chi era, di chi erano gli occhi di quell’uomo?
Lo ricordo bene quel giorno, per un altro motivo. Per la musica. Musica classica. Papà era un radioamatore. In realtà ha sempre amato qualsiasi cosa che trasmettesse un segnale o ne captasse uno. Terminata la cena, scendeva sempre in garage dove c’era quel suo mondo di fili e manopole, antenne e sintonizzatori, microfoni e cuffie. Se ne stava con la mano appoggiata all’orecchio destro, seduto di fianco accanto ad un ricevitore ad onde corte, quelle che ti permettono di ascoltare stazioni radio da posti lontanissimi: dal Sudamerica fino all’Unione Sovietica, da Cuba alla Cina che per noi, allora, erano mondi inaccessibili.
La radio, a quel tempo, era l’unico modo per superare la “cortina di ferro” e sintonizzarsi sulle stazioni dell’est Europa. Mio padre passava ore in compagnia di lingue diventate per lui suoni familiari. Idiomi che da tutto il mondo annunciavano la cosa che più amava: la musica. La musica classica. Quella trasmessa alla radio. Guardate, non è la stessa cosa, ve lo assicuro. La musica classica che arriva dalle onde radio è qualcosa di molto diverso da quella che nasce sotto una puntina o da un nastro che scorre. E’ come se nel suo viaggio da un punto all’altro del mondo, la musica riuscisse a catturare le immagini e la poesia dei posti che attraversa. Di questo papà era convinto e adesso ne sono convinta anch’io.
Lui se ne persuase definitivamente un pomeriggio del 1973 quando, da una stazione sovietica, trasmisero “Recuerdos de la Alhambra”, un brano per chitarra classica di Francisco Tárrega, eseguito in quella circostanza dal grande maestro Andrés Segovia. Quel pomeriggio, ci disse, accadde qualcosa. La musica, trasmessa da una stazione in onde corte di San Pietroburgo, lui la vide. Disse esattamente così: “Ho visto la musica”. Gli parve di vedere una striscia di luce sopra l’Europa dell’est, un fascio che passava di confine in confine, di capitale in capitale: San Pietroburgo Varsavia, Praga, Budapest, Bucarest, Sofia e poi dritta, quella luce, le vide appoggiarsi sull’Adriatico, puntare verso Cesenatico e, attraverso la finestra del garage, fermarsi accanto alla sua radio. Fu allora che la musica gli parve qualcosa di diverso, una sorta di cannocchiale potentissimo che, insieme alle note, portava con se le immagini dei posti che attraversava. Papà ci fece un discorso quel giorno e ci disse che ogni domenica pomeriggio (la rivelazione la ebbe una domenica pomeriggio) avremmo fatto una passeggiata in macchina davanti al mare ad ascoltare musica classica. Per me quello era il momento più bello della settimana. E, ne sono certa, lo era anche per la mamma.
Sulla Fiat 128 color amaranto, papà aveva installato un’antenna potentissima con una duplice funzione: quella di ricevere stazioni in onde corte e, alternativamente, le conversazioni dei suoi amici radioamatori. Dentro, nell’abitacolo, in quelle domeniche passate vicino al mare, c’era una pace sospesa e condivisa. Non esistevano altro che quel tempo immobile e quel tepore che scaldava ogni piccolo gesto.
Almeno fino a quella domenica, 19 marzo 1978, quando sentii chiaramente un brividio. Qualcosa di impercettibile, durata una frazione di secondo. Ancora non riesco a mettere a fuoco le immagini e i pensieri di quel momento ma è come se davanti a noi, quel giorno, ci fosse qualcosa di sinistro e gelido a fotografarci. E’ questa l’altra cosa che oggi ricordo. E’ passato molto tempo, eppure sono certa che quel giorno qualcosa è successo. La mamma se n’è andata da qualche anno ma forse papà, riguardando quella foto, potrà ricordare chi fosse l’autore. Il tempo è passato e ormai quel vecchio garage collegato col mondo non c’è più. Papà è diventato anziano e le sue attrezzature le tiene in casa. La sera, quando seduto in poltrona guarda le macchine che scorrono verso casa, accende ancora la radio. La musica classica è rimasta la sua passione e quella alla radio in particolare. Di quella sua vecchia teoria, quella della musica come proiettore di immagini, non s’è mai stancato. Me ne ha parlato anche stasera, quando sono andata a trovarlo con questa foto enigmatica tra le mani.
– Elena, sai, ieri sono stato a Bratislava. Dal teatro nazionale, l’ensemble slovacco “Musica Aeterna” ha eseguito brani di Corelli, Pergolesi, Händel.
– Papà, ti ricordi questa foto?
– Sì certo. Devono essere gli anni ’70. Siamo nella vecchia 128
– Si. E’ uno dei pomeriggi di una delle tante domeniche passate insieme sul lungomare, io tu e la mamma. C’è anche la data: 19 marzo 1978, domenica delle Palme. Ti ricordi chi fece questa foto?
– E’ passato così tanto tempo …
– Guardala bene. Forse c’era qualcuno con noi quel giorno, non ricordi?
– Elena … sono passati trentasette anni. Non me lo ricordo quel ragazzo che stava seduto sull’Honda.
– Come sull’Honda? Un ragazzo? Ma allora te ne ricordi …
– Ma sì, c’era un ragazzo e pensai ci potesse fare una foto. Mi ricordo solo che ci fermammo e mi venne l’idea di chiedere a qualcuno di scattarci una foto. C’era quel ragazzo biondo con una Polaroid in mano. Stava a cavallo di una moto Honda ferma sul lungomare e gli chiesi se ci faceva una foto.
– Ma chi era, te lo ricordi?
– Ma no che non lo ricordo, Elena. Non gli chiesi mica i documenti! Anzi, nemmeno mi capiva bene. Penso fosse tedesco da quanto era biondo. Sarà stato uno dei tanti che all’epoca venivano in Romagna. Volevo pagargliela la foto ma non volle nulla. Appena fu pronta me la diede, misi in moto e mi allontanai. Lo vidi dallo specchietto retrovisore che fotografava nella nostra direzione.
– Va bene papà. Se ricordi qualcos’altro, chiamami … e non restare tutta la notte con la radio accesa.
– Va bene, se ricordo qualcosa ti chiamo. Ah, Elena …
– Sì?
– Però è una bella foto, conservala. Vedi come è felice la mamma? Sarà contenta se la conservi. Eravamo felici tutti, non è vero?
– Sì papa, lo eravamo. Questo me lo ricordo anch’io.
Tornata a casa sono rimasta a pensarci ancora un po’, senza venirne a capo. Ho messo allora quella foto tra le pagine di un libro e deciso di abbandonare quella mia strana idea. Ma la cosa è tornata il mattino dopo, quando sono arrivata in redazione. Ah, questo non ve l’ho ancora detto. Sono una giornalista, professionista, e lavoro al Resto del Carlino. Bologna, sede centrale. La prima cosa che faccio, quando arrivo al mio tavolo, è quella di controllare le agenzie di stampa e quella mattina la mia attenzione fu catturata da una notizia battuta di buon mattino dall’Ansa.
FORLI’ 16 marzo 2015. “Caso Moro, riparte da Cesenatico l’inchiesta sulla moto Honda avvistata in via Fani”.
‘ Un mistero che dura da trentasette anni sembra giunto ad una svolta, quello di una moto Honda con due persone a bordo presente in via Fani il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro e dell’eccidio della sua scorta. Questa mattina agenti della Digos hanno fatto irruzione in una vecchia tipografia in Viale Carducci a Cesenatico. Allertati da una denuncia anonima che segnalava strani movimenti attorno alla tipografia in disuso, gli agenti hanno forzato l’ingresso chiuso da anni. All’interno l’inattesa scoperta. Una moto Honda CB 500 Four, un classico modello anni ’70 all’epoca molto diffuso. Sotto il sedile della moto, dentro al vano destinato agli attrezzi, sono state ritrovate alcune fotografie scattate con una macchina Polaroid. Foto che ritraggono l’incrocio tra via Stresa e via Mario Fani a Roma, pochi attimi prima dell’agguato. Si vedono l’auto della scorta e, di seguito, quella con a bordo Aldo Moro, all’epoca presidente della Democrazia Cristiana. Tutto il materiale rinvenuto è all’esame degli inquirenti. Mistero su una delle foto ritrovate. Ritrae, presa da dietro, una Fiat 128 amaranto con tre persone a bordo di cui non è possibile vedere il volto. Anche la targa, fuori dall’inquadratura, è ignota. Le persone fotografate e presenti nell’abitacolo, sono probabilmente destinate a restare sconosciute. Resta il mistero del perché il presunto terrorista abbia fotografato, tre dopo giorni il rapimento e la strage, quella che sembra essere una tranquilla famiglia in gita domenicale ’.
Finito il turno in redazione, sono montata in macchina e corsa di volata a Cesenatico. Era già notte alta quando sono arrivata. Papà era dietro ai vetri, osservava le ultime macchine di ritorno a casa. La radio era accesa, sintonizzata su Bratislava.
– Papà!
– Elena …, cosa ci fai qui?
– Ecco, volevo dirti di quella foto: ricordi?
– Sì, dimmi, ti piace vero?
– Ecco … sì
– Beh, cosa c’è, non volevi dirmi qualcosa?
– Ecco, sì, volevo dirti che mi piace molto. Mi pace molto perché la mamma è contenta e si vede.
– Ah, ecco, volevi dirmi questo, lo sapevo. Ma non potevi telefonarmi?
– No, papà, volevo farti una sorpresa e dirti che stanotte mi fermo qui a dormire.
– Bene, così finalmente qualcuno spegnerà la radio. Allora andiamo, perché è già tardi. Buonanotte Elena.
– Buonanotte papà.
Stanotte ho pregato perché la mamma fosse contenta. Lo so, vi sembrerà strano, ma è andata proprio così. Mi sono svegliata e ho pregato solo per questo: perché la mamma fosse contenta. Poi ho acceso la luce, aperto il comodino, e riguardato quella vecchia foto dimenticata. E’ una foto strana, sembra che trattenga qualcosa e adesso so cos’è.