Nello splendido Hard To Handle, il brillante film di Gillian Armstrong che documenta l’avvio del tour di Bob Dylan con Tom Petty & The Heartbreakres del 1986, alla fine di una Knockin’ On Heaven’s Door letteralmente da brividi, Dylan raccoglie dal palco una rosa per porgerla ad una delle coriste prima di uscire di scena.
Sui palcoscenici di certi show, specie quelli americani, accadeva che a volte volasse di tutto, dalle scarpe alle cose più bizzarre. Ma era ben raro che Dylan, spesso tacciato d’essere poco o per nulla comunicativo col pubblico, si chinasse a raccattare uno qualsiasi di quegli oggetti, disposto a far sì che diventassero un tramite tra sé e gli altri, sorta di transfert più intenso con la gente sotto il palco. Era successo, però, che l’avesse fatto, un’altra volta almeno.
Nel 1978, al termine di un tour attraverso Giappone, Australia, Europa ed America, con una ricca band ed un disco – Street Legal – nuovo di zecca, Dylan, a metà novembre, canta a San Diego, con un mese di concerti ancora davanti a sé. Non si sente troppo bene ed è convinto che anche gli altri se ne siano accorti. Qualcuno, da sotto, butta un crocifisso d’argento sul palco e lui lo raccoglie da terra. Sono gesti che di solito non fa, ma quella volta se lo mette in tasca, per portarlo con sé, fino al concerto successivo, in Arizona, dove si sente ancora peggio del giorno prima. “Ho bisogno di qualcosa“, dice a se stesso, ma non sa cosa. Non lo sa perché ha già provato e conosciuto di tutto ed ora prova il bisogno di qualcosa di nuovo, mai conosciuto prima: “mi guardai in tasca e trovai quel crocifisso“.
Sul palcoscenico della vita vola di tutto, ma noi, spesso, non ci fermiamo a raccogliere le provocazioni che essa ci offre, preferendo continuare a recitare. Alle prese con una sorta di difesa da una realtà che fa paura, finiamo per mettere in atto una rappresentazione, incapace di riconoscere il filo rosso che lega misteriosamente gli avvenimenti della nostra esistenza. E, allo stesso tempo, non ci facciamo capaci di afferrare stretto il bisogno di un aiuto, il ricorso ad una misericordia che, sola, possa sanare le contraddizioni che nascono dall’alternarsi dei nostri successi e fallimenti. Riconoscere quel filo rosso – l’Amore che lega le cose tra loro – ed il bisogno – quello che scaccia la paura del palco – sarebbe il primo passo per mettere a posto le mille righe storte della nostra esistenza, consentendo ad un Altro di scrivervi sopra diritto.
Sono settimane, ormai, che Papa Francesco parla di misericordia. L’ha fatto anche il 13 dicembre, ad un mese esatto dai tragici fatti di Parigi. Ma quel giorno, in piazza San Pietro, è accaduto qualcosa di nuovo. Qualche centinaio di persone si ritrova sotto uno striscione, dove sta scritto “costruttori di pace”. Non sono gli unici di questi tempi, per fortuna. Costruttori di pace se ne trovano, nonostante tutto, ancora molti. Spesso nascosti nelle piccole cose d’ogni giorno, lungo le strade che percorriamo, sugli autobus, o dentro gli uffici. Storie di cronaca bianca che non fanno notizia nei telegiornali, ma contribuiscono a fare andare avanti la storia. Ma quel gruppo di persone è davvero speciale. Gli amici riuniti sotto lo striscione, attenti alle parole del Papa all’Angelus, sono cristiani e musulmani. Uomini e donne abituati da anni a camminare insieme, figli dell’esperienza scaturita dal carisma di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, morta nel 2007 ed ora serva di Dio della Chiesa.
Quando il Papa li vede, il volto gli si apre in un sorriso ed il tono della voce si fa deciso, accompagnato da un sussulto del corpo. “Andate avanti! – grida – Andate avanti con coraggio nel vostro percorso di dialogo e di fraternità”. Ed aggiunge: “perché tutti siamo figli di Dio!”.
Figli di Dio. E’ così difficile riconoscerci come tali, oggigiorno? Confessare che abbiamo tutti bisogno di un Padre? Torna in mente ancora Dylan, in una delle sue canzoni meno note, Father Of Night, che chiude New Morning, un vecchio disco del 1970. Nella sua biografia del cantautore americano, Anthony Scaduto definisce quella canzone un inno alla scoperta: “Non il Dio dei filosofi, ma il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” ha scritto Pascal. E, sembra aggiungere Dylan, non il Dio della logica e del ragionamento, ma il Dio che è dentro ciascuno di noi, il Dio che è “Io”. “Sono tempi duri”, spiega Dylan parlando a Scaduto di quella canzone, aggiungendo: “tutti abbiamo bisogno di un Padre”.
Forse non c’è bisogno d’altro, ora che il Padre giunge a donare nuovamente il proprio Figlio, un nuovo Natale per quest’umanità sofferente. Riconoscerci figli ed accogliere il Figlio che ha abbracciato tutto il nostro dolore. Dipende solo da noi, dalla nostra capacità di usare la libertà, il “potere” che è stato dato all’uomo di utilizzarla bene. Durante il recente concerto degli U2 a Parigi, sia Patti Smith che gli Eagles Of Death Metal – la band di scena durante l’eccidio al Bataclan – sono saliti sul palco, in due serate differenti, per cantare “People Have The Power”. Momenti commoventi ed un video ormai divenuto virale sulla rete. Così scriveva Patti Smith, a proposito del periodo in cui compose quella canzone: “un pomeriggio, mentre facevo i lavori di casa, fui interrotta da Fred (il marito, nda) con queste parole: “la gente ha il potere. Scrivilo”. Dopo aver raschiato le pentole, mi misi a scrivere i testi delle nuove canzoni. Le settimane seguenti le passai a rileggere numerosi passi della Bibbia con mia sorella Linda. Intrecciando questi riferimenti con un sogno, in cui mi apparvero dei pastori dell’Afghanistan che stipulavano una tregua con gli invasori russi e vivevano pacificamente insieme sotto il cielo di Dio, scrissi le parole e le consegnai a Fred”.
Una canzone meravigliosa, piena di speranza, tra le più belle scritte da Patti Smith e cantata spesso anche da altri. “Ascolta – recita quel brano – Io credo che ogni cosa che sappiamo / possa avverarsi attraverso la nostra unione / Possiamo far cambiare corso al mondo / Possiamo mutare la rotazione della terra / Abbiamo il potere / La gente ha il potere”.
E’ davvero così. Il dialogo e la fraternità sono nelle nostre mani. Quel gruppo di cristiani e musulmani, insieme in piazza San Pietro, ce l’ha spiegato stando unito sotto quello striscione. Il dialogo e la fraternità sono in mano a me e a te, quando camminiamo per strada, quando incrociamo il fruttivendolo arabo alla bancarella del mercato e quando ce lo troviamo di fianco a condividere il gesto della colletta alimentare. Questa è la strada possibile, anche in questi tempi di guerra. Il popolo ha il potere, perché il desiderio di felicità e di bellezza è stato deposto allo stesso modo nel cuore di ogni uomo. Il messaggio del Natale, oggi, è un messaggio di unità, quello che Chiara Lubich scrisse quasi a proprio testamento, pochi anni prima della sua chiamata al cielo: “il tuo giorno, mio Dio, io verrò verso di Te. Verrò verso di Te, mio Dio e con il mio sogno più folle: portarti il mondo fra le braccia. Padre, che tutti siano uno!”.