Intrecci inverosimili e oscuri hanno da sempre partorito e nutrito la grande musica rock, eppure il pop che ha visto sfilare alcune imponenti realtà storiche non è stato lo scherzo che troppo spesso si vorrebbe far credere. Un’avventura come quella di The Corrs ne offre una testimonianza privilegiata. Dundalk primi anni ‘90, spicchio di landa irlandese che lambisce la tormentata Irlanda del Nord. Il piccolo grande azzardo comincia dai fratelli maggiori Jim e Sharon, cui si uniscono in seguito le più giovani Caroline e Andrea. Dalle prime uscite al McManus’s alle audizioni per le comparse in The Commitments il passo è breve e il manager John Hughes riesce in poche mosse ad instradarli sulle tracce del music-maker guru David Foster che – conquistato dalla stoffa e dalla grinta live del quartetto – lo fa scritturare di getto dall’Atlantic.
E proprio in America viene confezionato l’esordio “Forgiven Not Forgotten” (1995), inaudito melange di pop frammisto a tradizione folk irlandese e a un tocco di garbato espressionismo che andrà a costituire la cifra distintiva del gruppo. La sensibilità elegante e morbida di riferimenti come The Carpenters e Fleetwood Mac va ad incontrare le istanze del mainstream pop moderno aprendo le porte a un singolare trademark sonoro. La produzione fa la sua parte e accorcia le distanze tra folk e gotha del pop grazie alle iniezioni soft-rock di Glen Ballard in “Talk on Corners” e di Mutt Lange per “In Blue”. Grandi successi che prendendo spunto dall’andante spensierato di family band come Wilson Phillips, spiccano per scrittura distintiva e talento non comune nel distribuire immediatezza e spessore delle radici profonde.
Il dignitoso “Borrowed Heaven” apre un periodo di approfondimento che culmina nello splendido “Home” (2005). The Corrs tornano ai fondamenti sposando in maniera superba il personale approccio espressionista alla tradizione pura. Poi tutti a casa, affari di famiglia, figli e impegni collaterali per uno standby a tempo indeterminato. Il resto è storia, inattivi Jim e Caroline, ondivaga e incerta Andrea, sarà Sharon a svelarsi vera mente e forza creativa dietro l’avventura del gruppo con due dischi dalla scrittura agile e disinvolta tra cui il recente ottimo “The Same Sun”.
In tutto questo la band si riunisce dopo la dipartita del padre Gerry e sotto la spinta di Caroline in un clima che sa insieme di sorpresa e di ritrovato slancio. Teatro dell’anteprima il classico Hyde Park Festival. Cosa accade in questo frangente di ben dieci anni nelle vicende di una delle famiglie più popolari dell’Isola di Smeraldo? Amore e dolore entrano in rotta di collisione, esistenza e trapasso bussano prepotenti e pongono le basi di un lavoro in cui vita e morte incidono ben prima di ogni strategia. “White Light” ne è la risultante.
Il singolo Bring On The Night è come un sogno in due tempi. Punte drammatiche, impostazione gravida di pop romantico tra il sincero e il convenzionale, fremito acustico della batteria di grande impatto. E su tutto il fascino dell’accompagnamento di un video giocato tra impressionismo e performance art, lo scontro frontale con la perdita degli affetti e lo sfondo della seconda età a marchiare i bellissimi volti delle protagoniste.
E’ un umore che infiamma il mood del disco a partire dall’iniziale I Do What I Like, ripristino del phasing pop dei Corrs anni zero tra sensuali riff vocali e continua ricerca di sollievo. O nella title track White Light emblema della canzone pop perfetta e stilosa che sfrutta il grande effetto unisono del chorus. Sulla stessa scia Unconditional mentre Kiss of Life e soprattutto Strange Romance sono oasi di dolce enfasi dal tiro romantico alto che esalta l’inconfondibile vena di un’Andrea Corr prodiga di carinerie.
Sentimento incombente di vita, morte e destino, senso di stacco tenero e violento ed eccoci in una seconda parte che è una pregevole rassegna di memorie di carne e sangue. Ellis Island fotografa la diaspora irlandese dell’800 con una lenta melodia irish tra dilaganti armonie vocali, pianoforte, bodhran e violino. Tutto si fa improvvisamente più raccolto e ricentrato in senso squisitamente acustico, l’evasione romantica si ribalta in un poema pieno di amoroso struggimento.
Ad essa si appaia una straordinaria Harmony che è memoria storica della vicenda delle due metà della terra d’origine. Indulgenza e compassione per una ballata che fa tesoro totale dell’esperienza folk di “Home”. Sviolinate magnetiche di Sharon, percussioni e tin whistle viaggiano in modalità marcia eroica, cori carichi e profondi disegnano l’epica variazione finale.
E’ una sezione dove persino la ballata romantica di Catch Me When I Fall appare immersa in sussurri e intime fattezze che richiamano il popolare genuino, e il tributo alla memoria del padre trova spazio in maniera del tutto atipica nella strumentale Gerry’s Reel che con il suo glorioso passo celebrativo riporta all’esplosività dell’antesignana Toss The Feathers. Nelle siamesi Stay e With Me Stay un senso di dolore esultante afferra l’ultimo pensiero con un incipit ritmico ad alto grado folk nella prima e con la dolcezza di una ninna nanna nella seconda. In un disco dove la vita detta metodo e ritmo al cuore e al suo destino, ci si scopre a ridere e piangere con passione e leggerezza.