C’era una volta l’underground? C’è mai stato in Italia? Si è preferita probabilmente la scorciatoia di quella che è stata definita “musica indipendente” oppure con il linguaggio hipster “indie”. Un mondo che prima o poi qualcuno dovrebbe decidersi a raccontare per quello che è stato ed è veramente, sbizzarrirsi a scoprire i legami nascosti – ma mica tanto – con le major di tante etichette “indie”,  i rapporti privilegiati con i distributori e i negozietti di dischi, le sponsorizzazioni di certi giornalisti auto proclamatisi guru della scena. 



Underground significa invece starsene da soli, a creare la propria visione musicale, fregarsene dei bollini pubblicitari, dei concorsi pilotati e dei padrini di turno. Una scena rigogliosa in America sin dagli anni 60, quando si parlava di “garage music” perché spesso non usciva dal garage di casa dove dei ragazzetti suonavano capolavori rimasti sconosciuti alle masse, o vivevano la gloria di un 45 giri passato da qualche radio per sbaglio. Note dall’underground come profetizzava Dostojevski con il suo uomo del sottosuolo, e a volte finisci per imbatterti in gruppi rock come i milanesi Psicotaxi (splendido nome) che davvero vivono in un mondo del sottoterra.



Attivi sin dal 2010, si sono creati un buon seguito grazie alle numerose esibizioni live e adesso pubblicano, dopo un ep, il primo album completo, “Effect of the head’s mass”. E’ un lavoro affascinante per quanto non di facile presa, ma è musica libera, non etichettabile, realmente “underground”. Qualcuno lo ha definito stoner rock, prendendo spunto da quel tipo di musica americana nata alla fine degli anni 90, ma per quanto i Psicotaxi pestino duro, i rimandi sono più ai primissimi Black Sabbath e ai loro riff monolitici, ai Blue Oyster Cult e la loro visione cosmica, agli Hawkind, i Grateful Dead dell’heavy metal. Insomma una sorta di psichedelia hard rock suonata alla grande, capace di condurre in un altrove, un bagno purificatore fatto di vibrazioni intense.



In più il gruppo milanese (Andrea Bordoni, Luca Bresciani, Lamberto Carboni e Virgile Mermoud la formazione base a cui in questo disco si aggiungono Gianpiero Risico al sassofono e Emanuele “Manolo” Cedrone alle percussioni) può contare su un membro speciale che dà quel tocco di classe e di originalità che contraddistingue gli Psicotaxi. I brani infatti sono tutti dei lunghi strumentali, ma in tre casi si aggiunge lo spoken word del giornalista, poeta e scrittore Manlio Benigni che recita altrettanti suoi testi. 

Il risultato finale è di grande spessore, un vero sottosuolo ribollente delle ansie, del disfacimento e della resistenza metropolitana che chiunque viva a Milano affronta ogni giorno. Una ritmica implacabile, graffiante, chitarre che jammano con disinvoltura ma anche rabbia. In Un tram che si chiama pornodesiderio uno dei brani recitati da Benigni sembra di riascoltare il grande Enzo Jannacci e i suoi monologhi apparentemente deliranti mentre la conclusiva Performance, con quei versi allucinogeni che ricordano un William Burroughs capace di autoironia con ancora Manlio Benigni grande protagonista, getta un ponte tra il mondo antico e purtroppo scomparso della Bowery newyorchese e Lambrate. Loro la chiamano “heavy mental poetry”. Per noi sono note dall’underground, vive e pulsanti. Tanto underground che il disco si può ascoltare tranquillamente sul loro sito ufficiale e su altre piattaforme in streaming illimitato, scaricare e per chi vuole anche su cd in uno degli ultimi negozi di dischi rimasti a Milano. Psycho, ovviamente.