Riguardo al nuovo disco di Adele si sta insistendo essenzialmente su due cose, a voler guardare  quel regno dell’uomo della strada che sono i Social Network. Da una parte, il carattere deprimente dei suoi testi, che ha dato luogo a tutta una serie di commenti ironici, alcuni anche particolarmente divertenti. 

Dall’altra, il numero esorbitante di copie vendute, anche considerando il momento di crisi attraversato dall’industria discografica. 



Riguardo ai testi, sinceramente, si può soprassedere. L’artista britannica non li ha inclusi nel booklet del cd e questo non può che voler dire che per lei sono importanti fino a un certo punto. Leggendoli, in effetti, non si rimane granché colpiti: romanticismo in formato famiglia, il cliché della ragazza abbandonata che comunque guarda al passato con serenità e augura ogni bene a tutti i suoi ex. Tematicamente trito e ritrito, banalotto anche dal punto di vista letterario, lo sfondo lirico di questo “25” non è certo tra le cose da ricordare. 



Sul discorso dei dati di vendita, invece, bisogna fare tutto un altro ragionamento: 27 milioni di copie dopo poco meno di una settimana dall’uscita, sono una cifra davvero esorbitante, soprattutto se consideriamo che le altre star multi platinate negli ultimi anni hanno viaggiato su cifre molto ma molto più basse. In un’epoca in cui sembra che nessuno compri più un disco neanche per sbaglio, ecco che il terzo album in studio di Adele arriva a toccare vette clamorosamente anni ’90, quando l’unico modo per usufruire di un prodotto nuovo senza sborsare soldi era farselo copiare su cassetta dall’amico. 



E forse un po’ c’entra il modo in cui lei e il suo entourage hanno voluto trattare lo streaming e il downloading illegale: “25” non è stato messo a disposizione su Spotify, Deezer e altre piattaforme simili. In più, non c’è stato davvero verso di scaricarlo abusivamente, non importa quanto duramente ci abbiamo provato. Certo, non credo che questa strategia basti da sola a spiegare un tale picco di vendite, ma è indubbio che, se stiamo a guardare l’azione in sé e per sé, siamo al cospetto di una grande vittoria. Nell’era della musica come sottofondo negli ascensori e nei centri commerciali, nell’era della musica come semplice gadget che va ad accompagnarsi a cose più importanti, la ragazza di Tottenham ha semplicemente affermato un principio tanto logico da sembrare  ormai superato: “Vuoi il mio disco? Compratelo!”. 

Facessero tutti così, non staremmo qui a parlare di crisi del mercato discografico. Certo, però poi viene in mente che controllare capillarmente ogni centimetro del web, bloccando qualunque leak vi si palesi, non dev’essere proprio la roba più economica del mondo. Di conseguenza, è sempre la solita storia: pochi grandi nomi possono fare quel che vogliono coi loro dischi, regalarli o costringerti a comprarli; tutti gli altri devono rassegnarsi a seguire il divenire delle cose. 

La domanda a questo punto è lecita: vale la pena spendere soldi per questo “25”? Io evito ogni dubbio e dico subito di sì, che mai soldi sono stati meglio spesi per un cd a prezzo pieno appena uscito anche perché, a memoria d’uomo, era da tempo che non compravo qualcosa che non fosse rigorosamente in offerta. 

Comincio col dire che noi italiani, al solito, abbiamo ancora una volta dimostrato tutta la nostra provincialità. Adele aveva già fatto incetta di Grammy col precedente “21”, che era stato uno dei grandi avvenimenti musicali del 2011. Noi ce n’eravamo accorti a malapena, non ricordo tutti questi tormentoni quattro anni fa. A voler giudicare dalle reazioni delle masse, sembra che la cantante britannica sia un’esordiente appena uscita da X Factor, piuttosto che una delle artiste di maggior successo degli ultimi anni. Ma si sa, noi siamo privi di memoria storica e sempre legati all’istante. 

Al di là di questo, i due lavori precedenti hanno rappresentato un fenomeno piuttosto interessante all’interno del vasto mondo dell’ascoltatore. Perché se normalmente tutte le uscite musicali si dividono rigorosamente in “mainstream” e “indie” (perdonatemi i termini) con i secondi che schifano i primi e viceversa, nel caso di “19” e “21” la situazione è stata diversa perché più o meno, ragionando in linea strettamente generale, questi lavori sembrano avere messo d’accordo un po’ tutti. 

Nel senso che lo snob ha potuto lodarli senza essere accusato automaticamente di ignoranza, tradimento, conformismo o quant’altro. Adele non è Lady Gaga e ovviamente neppure i Modà, giusto per intenderci. 

Questo “25” era un album attesissimo per almeno un paio di ragioni: il terzo disco nella carriera di un artista è il più difficile, dicono. Lo è ancora di più quando il secondo è stato un successo planetario: sarà in grado di ripetersi su quei livelli? È sempre una domanda da non prendere sotto gamba. 

Ma poi nel suo caso c’erano state le note vicende del tour interrotto per un grave problema alla gola, l’operazione, la convalescenza, il rischio di non poter più tornare quella di prima. 

E poi la vita che va avanti: oggi Adele ha un compagno stabile, un bambino di tre anni e quindi vien forse da pensare che la tristezza infinita che ancora aleggia nelle sue canzoni sia semplicemente un riuscito artificio letterario. 

In più, come se tutte queste cose non bastassero, c’è stata giusto recentissimamente la polemica con Damon Albarn che avrebbe dichiarato di avere trovato la cantante molto insicura, quando si erano trovati nel tentativo (poi abortito) di comporre qualche pezzo insieme. Un affare buono per i tabloid, con la replica stizzita di lei (“Sarebbe meglio non incontrare mai i propri idoli di gioventù”) a tenere banco negli scorsi giorni. 

Una volta che ci si libera di tutta questa zavorra e si inizia l’ascolto, le cose assumono tutta un’altra prospettiva. “25” è ovviamente un disco studiato a tavolino, dove ogni singolo dettaglio è stato  minuziosamente preparato in modo tale da rendere questo prodotto il degno successore di “21”. Di conseguenza, vengono coinvolti produttori di grido come Danger Mouse, Samuel Dixon, Max Martin e soprattutto Paul Epworth, che ha lavorato con tanti di quei nomi che contano che è semplicemente inutile scriverli. È soprattutto a lui che la Adkins si è affidata come partner di scrittura per queste undici nuove canzoni (che saranno quattordici nella versione deluxe). Insieme avevano già firmato importanti successi, quindi è stata una scelta naturale quella di provare a ripetersi. Ma non bisogna neppure dimenticare Greg Kurstin, con il quale ha scritto “Hello”, che non è solo il singolo più venduto di questo 2015, ma anche il punto da cui questo nuovo disco ha iniziato a prendere forma, facendo superare alla sua autrice una fase di stallo creativo che stava ormai durando da troppo tempo. 

Con gente di così grande esperienza coinvolta, è inutile dire che il suono di questo disco è al limite della perfezione. È un bene, diciamolo, è inutile fare gli schizzinosi. Negli ultimi anni ci hanno fatto credere che insistere troppo sulla forma fosse un modo per mascherare l’assenza di idee; in tanti casi è stato così (chi ha detto Coldplay?) ma sarebbe assurdo prenderla come regola generale. Il culto della produzione casalinga e del Lo Fi a tutti i costi può essere potenzialmente distruttivo e in questi anni ce ne siamo accorti. Sentire un disco che suona come Dio comanda ti riconcilia con il mondo, poche storie. A patto, ovviamente, che le canzoni ci siano. 

E le canzoni ci sono, anche questa volta. A “25” forse manca una killer track come poteva essere “Rolling in the Deep” e l’impressione è che questa volta si sia voluto lasciare eccessivo spazio alle ballate strappalacrime, quelle per cui i Social Network la stanno così tanto prendendo in giro in queste settimane. 

Ne risulta un lavoro meno aggressivo del precedente, un po’ meno ruffiano, anche se due canzoni come “Send My Love (To Your New Lover)” e “Water Under The Bridge” hanno una carica pop decisamente alta, con ritornelli azzeccatissimi che si muovono a metà strada tra i Chvrches e le prime cose di Madonna. 

Poi c’è un pezzo come “River Lea”, che appare leggermente “Black” e che gioca su atmosfere un po’ più cupe. E “Miss You”, che potrebbe diventare uno dei prossimi singoli, dove si sente qualcosa di R&B ma non molto marcato. 

Il resto, a partire dal tormentone “Hello”, posizionato infelicemente in apertura (ottimo brano ma poco indicato in questo ruolo) è un insieme di ballate di grande intensità emotiva, dove è spesso il pianoforte ad essere colonna portante dell’arrangiamento e dove la voce di Adele ha modo di dimostrare tutta la sua espressività. 

Già, perché Adele ha una bella voce ma soprattutto sa come cantare. In tanti l’hanno dipinta come una semplice esecutrice senza personalità, ma io non sono d’accordo: ascoltandola per tutti gli undici brani di questo cd, si scoprono sfumature ed intenzioni sempre diverse, sa essere ora aggressiva, ora più dolce, lavora sui toni alti ma si dimostra efficace anche sui medi, che vengono peraltro usati molto più spesso di quello che si potrebbe pensare. 

Non sarà la più grande cantante del pianeta, di sicuro una come Aretha Franklin era e sarà sempre un’altra cosa, non si vuole neppure tentare un paragone, però questa Adele non è una delle tante che solo per caso è arrivata al successo. C’è una marcia in più nella sua voce, è difficile non rendersene conto. 

E poi ci sono le canzoni. Anche qui siamo sul terreno del soggettivo e soprattutto non bisogna avere chissà quali aspettative perché è ovvio che siamo nell’ambito del pop da classifica. Eppure, i brani lei li ha sempre avuti. Per quanto brava possa essere come interprete (e di sicuro ce ne sono in giro di migliori, anche se la sua versione di “Lovesong” per me ha pochi rivali), il suo repertorio  è di livello decisamente superiore a quello annacquato e banalissimo di una Mariah Carey o di una Celine Dion, giusto per fare nomi di gente che a suo tempo ha dominato le classifiche. 

Con questo lavoro si gioca sul facile, certo, ci sono melodie fin troppo telefonate e intervalli armonici scontatissimi come in “All I Ask” (scritta assieme a Bruno Mars) e “Remedy”, una ballata pianistica da cui comunque è difficile non lasciarsi catturare. 

Poi c’è “When We Were Young”, firmata assieme a quel genio di Thobias Jesso”, che dopo aver pubblicato uno dei migliori esordi di quest’anno, ha pensato bene di arrivare a qualche milione di persone in più con un pezzo che non ha ovviamente il tono sussurrato delle sue produzioni da solista ma che è costruita su un crescendo molto efficace, che sfocia in un ritornello splendido, anche se forse troppo giocato sui luoghi comuni, soprattutto per come è stato cantato. 

Ma c’è anche “A Million Years Away”, una traccia completamente acustica, con solo la chitarra come accompagnamento, un brano che profuma di jazz anni ’50 e che è l’episodio che ancora mancava nel repertorio di Adele. Dire sorprendente sarebbe troppo ma rimane una delle cose migliori del lavoro. 

Poche orchestrazioni, per fortuna, per un disco che vuole soprattutto essere suonato da strumenti moderni (e infatti anche l’elettronica viene sempre lasciata da parte, se non in rarissimi casi) anche se in “Love You in the Dark” si cede alla tentazione con risultati, direi, assolutamente vincenti e ben poco pacchiani. 

Dovendo riassumere, direi che forse “21” aveva una marcia in più, c’erano due o tre canzoni che si attestavano su livelli più alti; eppure, se consideriamo che un terzo disco è stato per molto tempo sul punto di non uscire mai, possiamo ritenerci soddisfatti: non siamo di fronte ad un prodotto manieristico ma ad un tentativo di usare la propria creatività per compiere un altro passo del proprio percorso. Se ci è riuscita o meno, forse dovremmo aspettare almeno un anno,  prima di pronunciarci

Ad ogni modo, nel momento in cui infuria la polemica sul suo presunto valore artistico e tanti critici (anche competenti), sostengono che questa sia musica per una massa musicalmente poco educata, mi sento di dissentire, io che di solito sono sempre molto elitario in quanto a gusti e giudizi. 

Stiamo parlando di pop da classifica, confezionato ad arte per vendere il più possibile, ovvio. Però, io dalla prima volta che l’ho ascoltata, non sono riuscito a trattarla come le altre. Questa ragazza ha talento da vendere, sarebbe bello che più gente possibile sfidasse i pregiudizi e comperasse questo disco. Sì, ho detto proprio comperare. Per una volta sarebbe bello anche ricordarsi che la musica è un’arte e che l’arte non è un qualcosa che si può sempre e comunque regalare.